Alitalia e Ilva hanno un futuro incerto perché le multinazionali coinvolte sono scettiche sul risanamento e sono riottose a sobbarcarsi le perdite, tanto che tutt’al più parteciperebbero al capitale con piccole quote (100 milioni di Delta in Alitalia, bruciabili in pochi mesi) o cercano di uscirne appena possibile (ArcelorMittal da Ilva).L’opinione pubblica è ferita perché orgogliosa della compagnia di bandiera con il tricolore, e dello stabilimento di Taranto, il più grande d’Europa. Quindi invoca il ritorno alla politica industriale di un tempo, che dietro slogan enfatici (settore strategico, sinergie pubblico-privato) copriva le perdite con finanza pubblica a debito. La invoca perché non conosce quella più seria che punta alla competitività.
Le due società hanno molti punti in comune. Sono le più sofferenti ex controllate dell’Iri, il maggior ente a partecipazione statale del secolo scorso. Le altre ex controllate se la cavano, chi per una ragione chi per un’altra. Anche nell’acciaio quelle che stanno su prodotti/mercati pregiati (tubi senza saldatura Dalmine, acciai speciali AST) fanno utili. Invece la produzione povera (laminati piani Ilva) proprio non ce la fa, anzi ha sempre perso. Trent’anni fa (alla fine della prima presidenza di Romano Prodi all’Iri), la Finsider chiuse l’esercizio 1987 con una perdita di 1.650 miliardi di lire. Quarant’anni fa (presidente era Ambrogio Puri) l’Italsider chiuse il 1977 con una perdita di 395 miliardi di lire. Nel 2019 l’Ebitda dell’Ilva (stima Deutsche Bank) è negativo per 500-600 milioni di euro, con una perdita netta di quasi un miliardo. Lo stesso vale per Alitalia, non low cost né player mondiale, che nel 2018 ha perso 550 milioni.
Entrambe le società sono state curate con un’amministrazione straordinaria speciale. Nel 1979 questo strumento fu pensato per società importanti che fossero fallite o insolventi, allo scopo di rimetterle sul mercato per intero o per rami separati, invece di venderne gli impianti spenti, e ciò allo scopo di soddisfare meglio creditori e lavoratori. La prosecuzione temporanea della gestione era affidata a un commissario. Le imprese dovevano tornare al mercato, oppure liquidate, in nessun caso mollate allo Stato. Nel 2013, per evitare smembramenti in rami separati, il legislatore consentì ai commissari (non più uno, ma molteplici) di farsi promotori di un concordato con i creditori e aprì a una (unica) proroga di tempo. C’era però una condizione ed era che, nonostante il fallimento della società, l’impresa fosse sana o risanabile. Fu pensata per Parmalat.
Il 2 maggio 2017 invece il ministro Carlo Calenda applicò lo strumento così modificato all’Alitalia, nonostante si sapesse che non era risanabile. Inoltre, prestiti dello Stato e proroghe hanno oltraggiato i creditori. Nel 2015 il legislatore consentì di classificare l’Ilva di Taranto «settore strategico nazionale» a scapito delle ragioni dei creditori, che (da noi) sono quelli che ci rimettono sempre. Questa classificazione è sancita con un Dpcm, dunque è politica, non basata su statistiche tipo interdipendenza nella matrice input-output dell’economia italiana (Istat), tant’è vero che per anni Fca in Italia ha preferito comprare le lamiere dalla Cina, non da Taranto. Le perdite sono enormi perché l’utilizzo della capacità è molto inferiore al punto di pareggio operativo. Nell’Alitalia non basterebbe nemmeno un riempimento totale degli aerei. A Taranto, la ristrutturazione per l’ambiente e la fermata di un’area ordinata dalla Procura hanno compresso l’utilizzo della capacità per non si sa (da noi) quanto tempo.
Morale della favola: l’intervento pubblico non è mai stato una soluzione, né come imprenditoria di Stato (lo ha detto bene Dario Di Vico su L’Economia il 18 novembre), né per la crescita dell’economia, né per risanare le gestioni aziendali, né per cercare acquirenti (le multinazionali sono state cercate chissà perché non dai commissari, ma da Ferrovie per Alitalia e da Cdp per Ilva). I creditori ci rimettono, decine di migliaia di lavoratori rischiano il posto. Il problema non è la politica industriale, è il dramma della disoccupazione. Nel suo Rapporto Sostenibilità 2019 Federacciai dice: «Occorre pertanto, quanto prima possibile, un quadro di politiche di lungo periodo che preservi la competitività internazionale del settore, creando le condizioni per promuovere gli investimenti necessari». Sacrosanto.
Federacciai voleva dire competitività del sistema in cui operano le imprese siderurgiche. Cominciando, per esempio: dalla rete elettrica di Terna, da cui il Tesoro salassa utili impedendone il reinvestimento, dalla rete viaria comunale e provinciale intorno le fabbriche, dai porti e dalla capacità di cabotaggio. Sul tema ha mostrato consapevolezza l’amministratore delegato di Cdp, Fabrizio Palermo, nell’intervista a L’Economia l’11 novembre. I mesi che forse guadagnerà nella trattativa con ArcelorMittal e in una partnership a orologeria per Alitalia, il governo li dovrà impiegare in due passaggi: un sostegno alla disoccupazione figlia del passato e un progetto competitività genitore del futuro. Che non l’abbia fatto finora ne compromette la fiducia.