Fuori dai cancelli i lavoratori delle aziende dell’indotto non pagate da Arcelor- Mittal, dentro i finanzieri e i carabinieri del Noe a verificare se la multinazionale ha rispettato il contratto o invece ha depredato l’ex Ilva, come sostengono i commissari straordinari del governo. Sale la tensione nell’impianto di Taranto, dove gli operai hanno respinto con un “no” secco l’intenzione dei proprietari di spegnere gli altiforni. Una manovra rischiosa (non si esclude l’implosione degli impianti), costosa e che sancirebbe la morte definitiva dell’acciaieria per mano del gruppo che è stato fra i suoi più agguerriti concorrenti, prima di assumerne il controllo con un contratto che, nella denuncia dei commissari, assume i contorni di un «trappolone».
Le indagini della Procura — che dopo l’esposto dei commissari straordinari ha aperto un’indagine per distruzione di materie prime o prodotti industriali e di mezzi di produzione con danni all’economia nazionale — procederanno a passo spedito. «Andremo a velocità accelerata, per quanto ci sarà possibile. Ma è un’indagine seria che richiede i suoi tempi», spiega il procuratore Carlo Maria Capristo. Nella denuncia si parla di un magazzino con 500 milioni di merce svuotato e di merce svenduta, materie prime comprate a prezzi esorbitanti e poi scomparse. I sindacati aggiungono altre accuse di commesse dirottate altrove. Accuse da verificare, ma se riscontrate darebbero peso al sospetto che il «ricatto», lamentato dal governo sullo scudo giudiziario, sia un pretesto frutto di un disegno ben preciso. Una strategia da “prendi i soldi e scappa”. Il contratto che la cordata di Mittal si era aggiudicata prevedeva due fasi, una di affitto e poi, dopo la riconsegna degli impianti sotto sequestro, l’acquisto. Nessuna clausola per impedire che l’impianto fosse restituito devastato economicamente o addirittura spento. Ora per scongiurarlo non resta che un provvedimento di sospensiva. Su tutto ciò che riguarda il contratto, le distrazioni economiche e le possibili ricadute fallimentari indaga la Procura di Milano. E il Codacons invoca l’arresto dei dirigenti e il sequestro dei loro beni.
Una cosa è certa: ArcelorMittal non ha pagato i creditori che stamane alle 7 busseranno ai suoi cancelli. Si parla di un credito di 60 milioni. Se non saranno saldati, i lavoratori dell’indotto non hanno intenzione di far uscire alcunché. Lo stesso vale per i trasportatori. Alle 11 nello stabilimento ci sarà un consiglio di fabbrica dei sindacati metalmeccanici, dove si discuterà l’idea di una grande manifestazione nazionale a Roma. Al centro resta l’azione a tutela dell’impianto, la più importante fonte di sostentamento del territorio, malgrado i danni alla salute provocati dalle emissioni.
Una soluzione politica non sembra delinearsi. Il leader Cinque Stelle, Luigi Di Maio, si augura che «ci possa essere un incontro a Palazzo Chigi» con ArcelorMittal: «La strada che segue il governo è quella di far desistere ArcelorMittal dall’andare via da Taranto per via giudiziaria. Abbiamo depositato un ricorso e aspettiamo una risposta dei giudici». E se il ministro per gli Affari Regionali, Francesco Boccia, giura che «il ricatto non lo subiamo», il sindaco di Taranto Melucci conclude: «Ora Taranto vuole soddisfazione da ogni punto di vista».