Luxury for luxury: quando il «lusso per il lusso» sono le finiture per accessori metallici, il podio spetta a Lem. In poco più di quarant’anni, insieme alle altre società del gruppo, l’azienda aretina è arrivata a controllare il 12,5% del mercato globale della produzione per le maggiori griffe internazionali.
«Siamo artigiani nel cuore e industriali per necessità: così manteniamo il valore aggiunto della lavorazione di una volta valorizzando la quantità», sintetizza l’amministratore unico Daniele Gualdani. Che di assi nella manica ne ha, e lo si vede dal modo in cui ha risposto a una crisi — ovviamente quella da Covid 19 — che sul mondo della moda ha prodotto effetti spesso devastanti.
La parola chiave è «anticiclicità», tradotta da Gualdani nella decisione di sfruttare i lunghi mesi di impasse per riorganizzarsi in attesa della ripartenza.
Lem Industries ha sempre investito, anche (anzi, soprattutto) nei periodi difficili. E l’anno appena passato lo è stato in
modo particolare, per il gruppo: da un lato il blocco quasi totale dovuto alla pandemia, dall’altro un incendio che ha distrutto uno degli stabilimenti produttivi.
Così, dopo un trend di crescita costante, il bilancio 2020 si è chiuso con un calo del 30% del fatturato, sceso da 41,2 a 29,1 milioni. Ne hanno risentito anche la redditività, con il margine operativo diminuito a 3,4 milioni dai 5,4 del 2019, e la posizione finanziaria netta, con il passivo salito da 5 a 5,9 milioni.
Effetti della pandemia, appunto. Non aver mai fermato gli investimenti — scelta comune a tutte le aziende Champions — consente oggi a Gualdani di guardare comunque al futuro con ottimismo. Non lo scalfisce neppure il ritardo nella ripresa del comparto. Al contrario: «In tutte le precedenti crisi il lusso si è sempre dimostrato molto resiliente. Sono convinto che, quando finalmente si ripartirà, le percentuali di crescita saranno elevatissime». Al punto da fargli prevedere un vero e proprio boom non appena si potrà tornare a viaggiare in tranquillità.
Discorso a parte, invece, peri cosiddetti «middle brand», soffocati dai colossi con un effetto a catena anche sulla filiera di fornitura: «Lì serve l’intervento della politica. E la prima cosa da fare è rendere più stringenti le norme sull’utilizzo del marchio “Made in Italy”. È l’unico modo per evitare i raggiri e valorizzare i prodotti di qualità».