“Smettila di comprare vestiti, ne hai già una montagna”. Sarà capitato un po’ a tutti di sentirequesto rimprovero provenire dai propri genitori, quando vedono i figli acquistare capi a nonfinire. Fra saldi, Black Friday e promozioni, i cosiddetti “shopping addicted” sono sempre più numerosi, ora più che mai grazie alla presenza, in rete, di e-retailer che permettono diacquistare capi molto economici, ma dalla qualità piuttosto discutibile.
E che soprattutto contribuiscono a inquinare in modo importante l’ambiente, a partire dal loro processo di creazione (materiali scadenti, sfruttamento delle risorse umane, inquinamento delle acque attraverso i processi di tintura dei capi), fino alla vendita al dettaglio e al servizi di reso ai clienti.
Così, la famosa “montagna di vestiti” diventa molto più di un’iperbole, ma una vera e propria realtà. Come quella descritta da Maxine Bedat nelle pagine di Unraveled, nella traduzione italiana edita da Post Editori “Il lato oscuro della moda. Viaggio negli abusi ambientali (e non solo) del fast fashion”, uscito nelle librerie lo scorso 13 giugno e presentato in occasione del Festival della Green Economy di Parma. Un libro diventato un successo editoriale grazie soprattutto agli influencer.
Avvocatessa, imprenditrice, ricercatrice e attivista, Bedat ha dato vita a un libro dall’enorme impatto mediatico che lancia un allarme sul mondo del fast fashion attraverso il racconto di come viene prodotto un singolo paio di jeans, e mette in discussione le ampie retoriche di greenwashing che ormai da tempo investono le aziende del comparto.
Dalla pianta di cotone, attraversando i processi di filatura, taglio, cucitura e spedizione, fino ai nostri armadi: Maxine Bedat racconta come un singolo paio di jeans apparentemente “made in US”, per arrivare nelle nostre case ha compiuto, in realtà, il giro del mondo. Dal Texas alla Cina; dal Bangladesh allo Sri Lanka e poi di nuovo in America, per finire poi, dopo essere stato utilizzato, per diventare spazzatura in discariche “grandi come montagne, fatte dai 35 kg di tessuti che ciascuno di noi getta ogni anno”.
Ma se questa è la realtà, come fare per invertire la rotta? Dopo l’anteprima di “Il lato oscuro della mdoa” a Parma, Bedat è tornata in Italia in occasione della Milano Fashion Week all’evento WHITE Sign of the Times, e poi ospite alla Fondazione Sozzani. Luoghi, questi, in cui si ribadisce come “non è vero che non si possono cambiare le cose”. Partendo, innanzitutto, dal ruolo del singolo, che da consumatore passivo deve trasformarsi in cittadino consapevole ed informato, e smettere di seguire “celebrità che ci bombardano nei social media per venderci vestiti”. E poi diffondere i problemi di questo settore attraverso i media, perché “se non conosciamo queste storie, non smetteremo mai di essere consumatori”.
Nell’ultima parte del suo libro, infatti, Bedat fa un appello proprio alle star del web, spingendole ad unirsi a lei nel far aprire gli occhi ai tanti utenti che le seguono. Appello che sembra essere stato accolto: a rilanciare il libro, e la sua storia, oltre ad alcuni articoli sulla stampa nazionale, sono stati molti influencer del mondo di Instagram, soprattutto quelli più vicini al mondo del fashion e della sostenibilità.
Come Andrea Batilla, creative strategist e autore del libro “L’alfabeto della moda” (70 mila follower) secondo cui “questo libro è sconvolgente. Compratelo e diventerete persone migliori”, come scriveva nei suoi canali. O Matteo Ward che, dopo aver lavorato nel mondo della moda e averne scoperto i lati più oscuri, ha dato vita a Wråd, un brand innovativo dall’impronta sostenibile. Ward sottolinea ai suoi 26 mila follower che Bedat nel suo libro “condivide il suo percorso personale e spiega l’impatto negativo della moda anche dal punto di vista storico e politico”.
Non solo, il libro è stato citato anche nei profili dell’etiquette trainer Elisa Motterle (73 mila follower), Silvia Stella Osella, creative designer e fashion specialist (61 mila follower), l’esperta di sostenibilità Alice Pomiato (@aliceful) con i suoi 45 mila follower, Serena Mazzini influencer e divulgatrice dei “lati oscuri dei social network”, con 73 mila follower.
O ancora, l’attivista ambientale Federica Gasbarro (24 mila follower) o il giornalista Simone Cosimi (@popimmersion) e i suoi 28,6 mila follower.
E si sa: il potere dei social è ormai indiscutibile. Tanto che il libro ha conquistato la menzione del Financial Times, che lo ha indicato tra i finalisti dei 100 migliori libri dell’anno, e menzionato da giornali come Vogue o consigliato da Marco Panara su Affari&Finanza de La Repubblica.
Oprah Winfrey, inoltre, l’ha inserita fra le “100 Super Soul” che stanno migliorando il mondo. Successo che, naturalmente, ha poi coinvolto anche il pubblico: tantissimi i commenti di chi ha avuto modo di leggere il libro e sentirsi, in qualche modo, responsabile e parte del cambiamento necessario. “Dietro ai dati ci sono sempre storie e persone” scrive qualcuno, “Un viaggio terrificante (non riesco a pensare a una parola più adatta) tra abusi e sfruttamenti” scrivono altri.
Un viaggio che per Bedat porta a una sola conclusione: “La moda sostenibile non esiste davvero”. O forse, vogliamo pensare noi, esisterà quando tutti si impegneranno per renderla possibile. Certo è che nessuno può restare a guardare. Di fronte a un mondo che cade a pezzi e che grida aiuto, non si può più restare indifferenti. Soprattutto perché, alla fine, chi contribuisce a far ingigantire la famosa montagna siamo sempre e solo noi.
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