Jo Nesbø:«La famiglia è soprattutto conflittualità? Forse. Lo diceva anche Tolstoj»
Uscito a inizio novembre in contemporanea con la gran parte dei paesi di lingua inglese, il nuovo romanzo di Jo Nesbø, pubblicato da Einaudi con il titolo Il fratello, è il 25esimo di una carriera costellata di successi. Ricco di tensione, conferma le ben note capacità dello scrittore norvegese, oggi sessantenne. Età che, vedendolo in collegamento video dalla sua casa di Oslo, non dimostra in alcun modo. Nesbø è pieno di entusiasmi, interessi, voglia di conoscere.
È stato calciatore, giornalista, broker assicurativo e, ancora oggi, canta nella sua band pop rock, i Di Derre. Interessi e passioni che traspaiono anche nel suo ultimo romanzo, in cui a una prima parte dedicata a delineare sentimenti inespressi e rapporti irrisolti dentro la famiglia e nella piccola comunità tra i monti norvegesi, si apre pian piano al dolore e alla violenza. Il tutto affidato a personaggi definiti attraverso dettagli carichi di significati: come la passione ornitologica di Roy, la voce narrante del romanzo, o come la storia dimenticata dei «redlegs», la popolazione bianca e povera di Barbados, in cui è nata la cognata Shannon. Di lei Roy, analitico e spietato, spiega che «seguiva la legge della natura secondo la quale la famiglia viene per prima. Prima del bene e del male. Prima del resto dell’umanità». Perché «è sempre noi contro tutti».
Roy, perseguitato dalla «vergogna», è il protagonista del romanzo insieme all’esuberante fratello Carl. Chi sono Roy e Carl? Cosa li lega e cosa li divide?
«Innanzitutto sono fratelli. Io sono cresciuto con due fratelli, di cui uno più giovane di me. Ho sperimentato l’aspetto psicologico dell’essere insieme per tutta la mia vita e ho provato la legge della lealtà, che impone di proteggersi vicendevolmente. Roy e Carl crescono soli, in una piccola casa, condividendo la stanza proprio come me e mio fratello. Lui è morto sei anni fa, ma siamo rimasti insieme tutta la vita. È questo che unisce i fratelli, la condivisione. Roy e Carl sono divisi dall’essere molto diversi. Tra fratelli quasi coetanei c’è una continua rivalità: per l’attenzione dei genitori, per le ragazze, nello sport… E perfino il fratello con cui condividi tutto il tuo tempo alla fine della giornata può essere quasi uno sconosciuto. È una sensazione forse sorprendente, ma più comune di quanto possiamo immaginare».
Di che cosa parla veramente questo suo romanzo, certo un thriller ma anche la descrizione sensibile di sofferenze sottaciute?
«Credo che sia un romanzo sulla lealtà e sulle regole morali. Fino a che punto il senso etico che ci è stato insegnato è parte della nostra vita? O, piuttosto, le regole morali le impariamo nel corso della vita e ne creiamo di nostre? Ai protagonisti è stata insegnata la lealtà verso la famiglia come unica cosa importante e credo sia l’approccio della maggior parte delle persone. Si potrebbe riassumere: famiglia contro società».
Le regole morali sono le stesse ovunque o ogni luogo ha le proprie?
«Le regole della morale non sono qualcosa di divino o calato dal cielo. Sono una sorta di codice stradale creato per la società e, quindi, in continuo cambiamento. Prendiamo i diritti civili: un tempo un omosessuale era considerato un criminale, ma la mia generazione ha vissuto un cambiamento della morale pubblica tanto che oggi, ogni anno, l’intera nazione celebra la giornata dell’orgoglio gay. La morale si adatta al tempo, al luogo e alla società nella quale viviamo. Sempre».
C’è molta violenza nelle relazioni familiari?
«La maggior parte della letteratura riguarda i conflitti, ogni storia è guidata da un conflitto. Nelle famiglie i conflitti sono più aperti e vissuti, e portano alla luce forza e debolezze di ciascun membro. In effetti, molti grandi scrittori hanno scritto quasi esclusivamente di drammi familiari».
La famiglia è la peggiore delle comunità possibili?
«Per qualcuno forse lo è. In fin dei conti Tolstoj scrisse: “Tutte le famiglie felici si somigliano, ogni famiglia infelice è invece disgraziata a modo suo”».