Ci sono storie dove i protagonisti non sono eroi. Solo l’entrata a far parte di un libro li rende immortali. La loro vita assume un eco in quanto descritta. Nelle pieghe della banalità la scrittura svela l’essenza di quell’Io. Nelle curve del grigiore le pagine fanno scorgere passaggi universali. Partendo dalle gesta di “un qualcuno”, quasi preso a caso, quell’incedere diventa filosofia, anche se minima. L’occhio narrativo – di cui pochi dispongono – rende visibile il tutto. È quello che compie Isaac Bashevis Singer, Premio Nobel nel ’78, con Hertz Minsker: ebreo acculturato e squattrinato, scappato da un’Europa in fiamme che vive a New York. Lui diventa il protagonista de “Il ciarlatano”, opera recentemente pubblicata in Italia da Adelphi. La sua è una vicenda di sopravvivenza, trascinata nella convinzione di possedere la formula magica della commedia umana. Lui la chiama “la teoria edonistica-cabalistica”. Altri la chiamerebbero stupidità-velleitaria. Tra amori, avventure ed egoismi Singer lo fa parlare con Dio, e di Dio. I sensi di colpa pervadono Hertz e l’ammirazione per il ciarlatano si fa largo suo malgrado. Immerso nella cultura yiddish e ambientato nell’America degli anni ’40, è un racconto-lento che ci svela i pezzi di ciarlatano che esistono in tutti noi. Un libro che rende la goffaggine una forma quotidiana, la passione una sequenza di noie, il gioco una ritualità. Tutto ciò che la vita umana sa offrire in diverse gradazioni e in diversi tempi.