Il libro raccoglie i migliori «Buongiorno» scritti da Mattia Feltri sulla prima pagina de La Stampa dal gennaio 2017 a oggi.
Buongiorno, rubrica di prima pagina della «Stampa», era nata diciassette anni prima su iniziativa di Gramellini e per diciassette anni era stata scritta da Gramellini, la cui prosa e la cui grazia lo avevano elevato alla notorietà delle pop star. Quando ci capitava di passeggiare per Torino, Massimo riceveva sorrisi, inchini, saluti, strette di mano, alle quali non si negava, immagino fiero dell’esclusivo, e meritato, titolo di profeta in patria. Nessuno immaginava Massimo senza Buongiorno né Buongiorno senza Massimo. Né tantomeno io immaginavo che un giorno sarebbe successo per mia mano. (…)
Scrivere per un pubblico è sempre un atto di presunzione, e allora bisogna almeno concedersi la decenza di rifuggire dall’infingimento, dalle false modestie, dagli ammiccamenti, dalle accondiscendenze. Prendersene la responsabilità e dire quello che c’è da dire, se necessario essere distanti, sgradevoli, persino elitari, essere contraddittori perché il pensiero coerente è un pensiero sterile. Altro che servi del lettore: si scrive soltanto a beneficio di sé, il pubblico e i riconoscimenti, se ne arrivano, sono niente più di un gradevole effetto collaterale. Mi davano un trono, tanto valeva fare il re.
Da fine aprile sono stato nominato direttore di «Huffington Post», il giornale online del gruppo Gedi. Ho conservato il Buongiorno, ma tre quarti della mia giornata la dedico a «HuffPost». A differenza dei tradizionali quotidiani di carta, che sono il risultato armonico di ore di lavoro, il quotidiano online è una costruzione rapsodica, cacofonica, prigioniera del succedersi degli eventi, è immediata, frenetica, dunque isterica e spesso sfugge al controllo. Mi sto applicando a un’impresa che è il contrario di me. Del resto non mi è mai piaciuto il mio mestiere. L’ho fatto perché ci sono capitato. È bello stare in redazione, discutere, sentirsi dentro al mondo, ma delle notizie m’è sempre importato meno di poco. Mai ambito a realizzare uno scoop, e difatti non ne ho mai realizzati. Il vantaggio di fare il giornalista, per me, è che ci è concesso il tempo per due attività meravigliose: leggere e scrivere. Ci ho dato dentro per decenni con l’obiettivo di arrivare lì, a essere svincolato da ogni obbligo redazionale, le riunioni, i titoli, partire di corsa per il tal servizio, trovare l’intervista, battere i marciapiedi, consumare le suole, raccontare i fatti: attività nobili e che hanno condotto molti giornalisti all’eccellenza dell’informazione che è in sé eccellenza della narrativa ma, per me, la noia straziante. Ci ho dato dentro per arrivare all’antigiornalismo, a una giornata lavorativa di lettura e di scrittura, precisamente di una rubrica dedicata al mio arbitrio del giorno.
Da decenni non mi chiedo che senso abbia scrivere, perché la risposta mi è sempre sembrata ovvia, me l’ha chiarita tanto tempo fa Joan Didion: è un fatto di totale irrilevanza. I più grandi scrittori, quelli che sanno usare le parole con la precisione dell’orafo, nella migliore delle ipotesi vengono fraintesi. Io, che valgo quel che valgo, non ho mai conservato i miei articoli, ne avrò scritti a migliaia e sono perduti negli archivi o più probabilmente nel nulla. I miei articoli sono come il mio passato, appartengono alla mia memoria e ai suoi inganni; quello che ho scritto sono io, e io in parte sono quello che ho scritto. Fine. Non c’è nessun altro senso. Ricordo Fabrizio De André, nella sua grandezza per un momento collassante, quando espresse l’irrimediabile avvilimento per le canzoni scritte contro la guerra. Eppure la guerra c’era ancora. Leggevo con gli occhi fuori dalle orbite: non potevo credere che avesse scritto canzoni per cambiare il mondo, credevo le avesse scritte per cambiare se stesso.
Poi, siccome c’è quella questione della paura di morire e dell’ansia di immortalità, chiunque di noi ha scritto con l’illusione di sconfiggere il tempo. Un articolo sul giornale di carta consegna sempre il miraggio della sfida al tempo: scrivere oggi per essere letti domani, e fino a sera, che lusso, e magari qualcuno ritaglierà la pagina e metterà via il pezzullo per sottrarlo al presente e affidarlo al futuro, quando un figlio o un nipote nel rassettare le scartoffie se lo ritroverà fra le dita. L’immortalità. Ma sono pensieri oziosi e boriosi da rifuggire. Alla lunga ritrovarmi in un giornale online è stata una medicina: scrivo ora perpubblicare fra due ore e fra sei ore è tutto finito, oblio, sprofondo.
Insomma, questo libro nasce da un equivoco e si accomiata in un altro equivoco. Non è stato allestito per i lettori, ma per me. Per me ha lo stesso valore inestimabile di un album fotografico, con la faccia già perduta di ieri e dell’altro ieri, con le facce delle persone che amo (…)
Dopodiché il Buongiorno sarebbe già finito e il libro non sarebbe mai cominciato se non avessero avuto dei lettori. Cioè qualcuno che legge, prende e fa suo, nella piena disponibilità degli aggettivi possessivi. In questo senso nell’album fotografico ci siamo tutti: voi siete miei, e io sono vostro.
*La Stampa, 15 luglio 2020