C’è un orologio virtuale al quale tutti in Europa, dai politici, ai banchieri centrali, ai mercati finanziari, farebbero bene a prestare attenzione. È quello che scandisce il conto alla rovescia dei prossimi diciotto mesi, da qui alla fine di ottobre 2019, quando Mario Draghi lascerà la presidenza della Banca centrale europea. Il riconoscimento del ruolo decisivo che Draghi ha avuto nella soluzione dell’ultima crisi dell’area euro dovrebbe di per sé creare un certo senso di urgenza, perché prima o poi ci sarà un’altra crisi e l’Eurozona non è ancora completamente attrezzata per affrontarla, come ha ricordato lo stesso Draghi la settimana scorsa a Firenze.
L’unico che finora sembra aver colto quest’urgenza è il presidente francese Emmanuel Macron, a lungo frustrato nei suoi propositi di riforma dell’Eurozona prima dall’attesa delle elezioni tedesche, poi dalla lunga gestazione del nuovo Governo a Berlino, ora dalla vaghezza delle risposte ottenute. Il cancelliere Angela Merkel appare disponibile a qualche concessione, ma sui temi veramente di sostanza, come la creazione di un’assicurazione comune dei depositi bancari, parla di un futuro dai tempi non meglio precisati. La lega neo-anseatica dei Paesi del Nord Europa è ancora più coriacea. Curiosamente, l’unico ad aver capito la necessità di muoversi a passo spedito (anche se probabilmente non con gli stessi obiettivi di Macron) è l’ex ministro delle Finanze tedesco, Wolfgang Schäuble, il quale in un’intervista alla “Süddeutsche Zeitung” ha ammesso che il presidente francese è l’unico a offrire speranze di un cambiamento e che una delle ragioni della calante fiducia dei cittadini nella democrazia sta proprio nel fatto che non si concluda niente e che tutto si muova troppo lentamente. Che poi Schäuble ci abbia messo del suo, quando era in carica, per contribuire a questo rallentamento è un altro discorso. Da parte sua, il Sud Europa è il grande assente nella discussione: il Governo spagnolo ha prodotto un documento così prudente da risultare irrilevante, l’Italia è in altre faccende affaccendata e non sembra aver realizzato che i rintocchi del countdown suonano minacciosi soprattutto per lei.
I mercati sembrano cullati, almeno per ora, da un falso senso di sicurezza, salvo poi reagire in modo brusco quando ci sarà un pretesto opportuno, ed è probabile che sia l’Italia a fornirglielo.
Sul quadrante dell’orologio, ci sono diverse tacche: anzi tutto, quelle della politica monetaria, che nei prossimi mesi vedrà il ridimensionamento finale degli acquisti di titoli e a un certo punto, come ha ricordato ieri il governatore della Banca di Francia, François Villeroy, una modifica delle indicazioni sul futuro dei tassi d’interesse. Archiviato il Qe, è ora questa l’ultima grande partita che conta per Draghi sul fronte monetario. E non c’è dubbio che, potendo, gli piacerebbe aver avviato la normalizzazione anche su questo fronte prima di lasciare Francoforte.
Draghi, però, venerdì scorso a Firenze non è intervenuto sulla politica monetaria, ma sull’altra scadenza che incombe sull’Eurozona e che è assai più determinante nel quadrante dei prossimi diciotto mesi: le riforme che devono affrontare le «fragilità irrisolte» dell’unione monetaria. E per queste l’appuntamento è al vertice europeo del mese prossimo, dove l’ennesimo rinvio non farebbe che accentuare la percezione di incapacità e lentezza riconosciute da Schäuble.
Nel percorso verso il vertice, la contrapposizione fra riduzione del rischio e la sua condivisione sta già registrando irrigidimenti. È una dicotomia artificiale, dice invece Draghi: questi due obiettivi si rafforzano a vicenda. E fa due esempi, sui quali si misurerà il successo del vertice e il rafforzamento dell’Eurozona in vista della prossima crisi. Il primo è quello di un backstop fiscale per il Fondo di risoluzione unico delle banche: il che non vuol dire il bailout delle banche stesse, spiega Draghi, ma creare la fiducia che la risoluzione venga realizzata, con un effetto di stabilizzazione e in ultima analisi di riduzione del rischio. Ce l’hanno tutti: Stati Uniti, Gran Bretagna e Giappone. L’altro è uno “strumento fiscale addizionale” per mantenere la convergenza durante gli shock senza sovraccaricare la politica monetaria. Fornirebbe un altro strato di stabilizzazione rafforzando la fiducia nelle politiche nazionali (non sostituendosi a esse).
Su questi punti, specialmente il secondo, Draghi non è mai stato così esplicito. Un segno che almeno lui ne ha certamente presente l’urgenza. Il discorso di Firenze può essere letto quindi come un messaggio al prossimo vertice europeo. Se i politici scegliessero di ignorarlo, lo farebbero a rischio e pericolo del futuro dell’euro.