Chiudere la partita Autostrade in poche settimane per evitare che il protrarsi della vicenda, con le turbolenze che potrebbe creare sui mercati internazionali, finisca per incrociarsi con le valutazioni delle società di rating sull’economia italiana e con la costruzione del documento di politica finanziaria, vero redde rationem d’autunno. Esaurita con le ultime scettiche dichiarazioni dei ministri leghisti la spinta propulsiva dell’idea di nazionalizzare 3.000 chilometri di autostrade con un atto di imperio, nel pomeriggio di ieri l’agenzia Bloomberg ha reso pubbliche alcune ipotesi degli ambienti di governo sul possibile coinvolgimento di Cassa Depositi e Prestiti. Scenario che in serata gli uomini vicini a Giovanni Tria si sono affrettati a smentire decisamente. Segno che anche su questo dossier la dialettica tra grillini e leghisti si fa vivace.
La partita prevede inevitabilmente due piani di intervento: quello dei rapporti tra lo Stato e il concessionario di Autostrade, l’Atlantia di Benetton. E quello, più tecnico, della revisione, in ogni caso, delle regole dell’attuale concessione in senso più favorevole all’interesse pubblico.
Sul piano dei rapporti con il concessionario, la parte grillina del governo, e ancora ieri lo stesso Conte, hanno promesso lo scalpo grosso. Non i manager di Autostrade ma proprio la famiglia Benetton, la proprietà. Questo può avvenire in due modi. Il primo è la strada spiccia della revoca della concessione, la decapitazione simbolica sulla pubblica piazza, dopo processo sommario, di un azionista ritenuto responsabile della tragedia di Genova. Operazione di sicuro effetto scenico ma fatta sostanzialmente al buio, senza avere certezze su quale potrebbe essere l’esito del contenzioso tra concedente e concessionario, che ieri Mediobanca valutava in 11 miliardi di spesa per lo Stato, e senza sapere se, dopo la revoca, si sarebbe costretti a mettere a gara una nuova concessione e con quali potenziali partecipanti.
In alternativa a questo quadro, ha cominciato a circolare ieri, sempre in ambienti grillini, una versione più moderata che ipotizza una sorta di commissariamento consensuale fatto al livello della controllante Atlantia o a quello della società operativa, Autostrade (Aspi). Commissariamento che prevederebbe l’intervento di Cassa Depositi e Prestiti nel ruolo di socio di Atlantia o della stessa Aspi. In questo scenario si potrebbe evitare la revoca della concessione e, di conseguenza, anche l’apertura di una gara per riaffidarla. E si potrebbe rivendicare a merito del governo l’aver inserito nel sistema che governa Autostrade una sorta di sentinella pubblica, magari dotata di una specie di golden share per tutelare gli interessi del popolo e frenare gli appetiti del privati. Un ingresso con una quota simbolica in una società, Atlantia, che per essere scalata avrebbe bisogno di un esborso di almeno 16 miliardi.
Ma, dopo ore di indiscrezioni, dal Mef è giunta chiara la smentita: questo utilizzo decisamente irrituale della cassa Depositi e Prestiti come controllore pubblico di una società privata non è gradito agli uomini di Tria. Anche perché rappresenterebbe una distorsione del sistema. Dunque la partita dei rapporti tra Stato e Benetton rimane sostanzialmente aperta e sommamente incerta. A provare a tirare le fila è, come spesso accade, il leghista Giancarlo Giorgetti divenuto ormai l’ala dialogante della compagine governativa.
Più semplici e quasi obbligati sono gli interventi di revisione dei contenuti della concessione stessa spostando a favore dello Stato un equilibrio che, per unanime ammissione di tutti gli osservatori, era diventato troppo sbilanciato a favore del concessionario. Si tratta in questo caso di rimettere a posto quattro punti.
Il primo è quello del calcolo delle tariffe e la durata stessa della concessione perché mai come in una una società che vive di pedaggi il tempo è denaro. Il secondo punto è la modifica delle clausole del recesso. Nella concessione di oggi non è mai scritto che la revoca possa essere effettuata senza oneri per lo Stato: anche se si accertassero gravi responsabilità del concessionario, il governo dovrebbe comunque pagare una penale equivalente ai mancati introiti per gli anni (ben 24) che mancano alla fine della concessione. Una distorsione che va evidentemente sanata. Il terzo punto su cui intervenire è certamente quello degli appalti. Invano il governo Gentiloni aveva tentato di diminuire dal 40 al 20 per cento la quota di lavori di manutenzione affidata alle società satellite dei concessionari. Ora nel governo si ipotizza addirittura di ridurre quella quota dal 40 al 10 per cento. Infine bisognerebbe introdurre il sistema delle verifiche periodiche delle concessioni stesse, previste dalla riforma del sistema firmata da Di Pietro nel 2007 e abolite dal governo Berlusconi l’anno successivo.
Anche questo pacchetto di modifiche delle norme delle concessioni, plausibilmente da estendere a tutte le società e non solo ad Autostrade per l’Italia, potrebbe essere rivendicato come una vittoria del governo del cambiamento.
Ma non servirebbe a sciogliere il nodo del rapporto tra governo e Benetton che ancora ieri i grillini mettevano al centro della loro battaglia politica.