Il volo del Trentunesimo Stormo con destinazione Davos viene cancellato nella tarda serata di ieri. «Il Presidente resta a Roma». È il segnale che il governo rischia di frantumarsi. Certo, Giuseppe Conte dà buca al World Economic Forum perché a Palazzo Chigi c’è da discutere del decreto Taranto e da approvare in consiglio dei ministri la riforma del cuneo fiscale, tre miliardi da vendersi come uno spot nelle ultime ore di campagna elettorale. Ma la verità è che a far saltare la passeggiata dell’avvocato sul prato gelato incastrato tra le Alpi svizzere è prima di tutto un sentimento: la paura. «Temo – è il suo ragionamento – che il voto di domenica inneschi dinamiche pericolose per l’esecutivo». La paura si annida nei dettagli, come il diavolo. E quindi la frase autentica confidata nelle ultime ore ai governisti pare sia stata ancora più allarmante. «La situazione potrebbe sfuggire di mano, dove vado? Meglio restare a lavorare, mostrare che il governo produce risultati». Cambia poco, comunque: conta il rischio di una sconfitta epocale in Emilia che innescherebbe un potenziale, «incontrollabile effetto a catena».
Alla vigilia delle Regionali il programma dei giallorossi non va oltre l’atto di fede. «Speriamo», risponde Conte a chi gli chiede una previsione. E lo stesso fa da qualche giorno Nicola Zingaretti – cos’altro può dire, lui che è il più esposto di tutti? dopo aver respirato ottimismo assieme al resto della classe dirigente per settimane. E preoccupatissimo è anche Dario Franceschini, il governista tra i governisti, consapevole che le eventuali dimissioni del segretario darebbero fiato a chi nel Pd pochi, per adesso, e soprattutto la corrente dei sindaci – pensano alle elezioni come al male minore.
La paura bussa alla porta, ma fino a domenica sera deve dominare la speranza. In fondo, Bologna e le Sardine potrebbero trascinare alla vittoria. Sondaggi non si possono pubblicare, ma tutti spacciano quelli riservati per mobilitare le truppe: lo fa Giancarlo Giorgetti con i leghisti, «ma speriamo che non cada il governo – scherza con i suoi – sennò poi tocca a noi…», e fanno lo stesso i dem. Conte, invece, telefona.
Da ieri, il premier chiama come se non ci fosse un domani. Non ci sono conferme ufficiali, ma nelle ultime ventiquattro ore avrebbe sentito o visto Roberto Fico, Stefano Patuanelli, Riccardo Fraccaro, Alfonso Bonafede, Paola Taverna. La ragione è semplice: «Mettere ordine, evitare che il caos prevalga». L’obiettivo è far funzionare già da lunedì il Movimento orfano di Di Maio, per affrontare le turbolenze. Con Paola Taverna, poi, candidata in pectore per la futura leadership. «Io dietro alla fine di Di Maio? Macché – non si tira indietro la parlamentare romana – gioco sempre a volto scoperto».
Le dimissioni di Luigi Di Maio, comunque, hanno complicato terribilmente il quadro. Hanno il vantaggio di evitare a urne chiuse un lunedì nerissimo nel Movimento, visto che l’autodecapitazione c’è già stata. Presentano però lo svantaggio di rendere ancora più insostenibile la posizione di Nicola Zingarett i, in caso di una vittoria leghista. Il segretario lavora ovviamente per vincere e restare al suo posto. In caso di sconfitta di misura, poi, sarebbe già pronto un rilancio: un piano in cinque punti, un’agenda di governo nuova di zecca, le condizioni del Pd per restare in maggioranza, «altrimenti si vota». Ma basterà davvero per archiviare un’eventuale disfatta?
C’è poi un altro dettaglio che allarma Conte: perché Italia Viva sembra così silente? Neanche il tempo di domandarselo che Matteo Renzi batte un colpo, a sera. «Alle prossime elezioni ci sarà ancora il Movimento? Per me sono finiti». Una fotografia della realtà da riservare al peggior nemico, più che a un alleato. Fiato, soprattutto, per chi sostiene che l’ex premier sia pronto a cavalcare un’eventuale sconfitta alle Regionali per archiviare l’esecutivo. Le ragioni inconfessabili di questa tentazione sarebbero rintracciabili, dicono dal Pd, nelle recenti inchieste sulla galassia di Open e in un patto politico con il centrodestra, in vista di una futura alleanza. I renziani negano, e ipotizzano invece a mezza bocca un altro schema: una crisi e un nuovo premier, Dario Franceschini. Di realizzabile, in tutto questo, è possibile che ci sia davvero poco. Nessuno può controllare tutte le variabili in gioco.