Ricordate l’auto di Diabolik, la mitica Jaguar E-Type che Enzo Ferrari definì la più bella del mondo? Oggi esiste anche con motore elettrico. E la casa automobilistica britannica promette che dal 2020 – tra meno di tre anni – offrirà una versione elettrica per ogni modello prodotto.
Ricordate i tempi in cui il petrolio orientava le borse mondiali? L’anno scorso gli investimenti in rinnovabili sul pianeta sono stati circa il doppio di quelli nelle fonti fossili. I tempi stanno cambiando: in questo cambiamento il nostro Paese può essere protagonista. Ovviamente molto dipende dalla scelte della politica e delle istituzioni. È necessario avanzare misure coerenti con gli impegni della COP21 di Parigi, proseguire con il cammino imboccato dall’Europa sull’economia circolare, proporre una Strategia Energetica Nazionale che investa tutti i settori e che sia al tempo stesso coerente ed ambiziosa.
È oggi ad esempio assolutamente praticabile proporre, in campo elettrico, l’abbandono del carbone prima del 2030 e la totale produzione da rinnovabili al 2050. Ma è già in campo un approccio tutto italiano e questa sfida parte anche dalle antiche vocazioni del nostro modo di produrre: fatto di efficienza nell’uso di energia e materie e di riciclo. Perché in Italia green economy vuol dire questo: sostenibilità e competitività, efficienza e bellezza, qualità e innovazione, saperi dei territori, coesione e mercati internazionali. È l’Italia che fa l’Italia, un’Italia che non dimentica il passato ma che è insieme innovativa e promettente oltre i luoghi comuni, un’Italia di cui andare fieri e cui dare credito.
La transizione verso un nuovo paradigma produttivo ha assunto una accelerazione. Evidente proprio nel caso citato dell’auto elettrica: un decreto del governo cinese, ad esempio, impone che dal 2019 tutte le case automobilistiche che operano in Cina (per inciso, il più grande mercato del mondo) dovranno vendere almeno il 10% di auto a motore elettrico, con l’obiettivo di avere al 2025 il 20% del parco circolante di nuova immatricolazione ad emissioni zero; e già oggi nelle grandi città cinesi possono circolare solo scooter elettrici.
Lo dimostra il caso delle rinnovabili: nei prossimi cinque anni, stima l’Agenzia internazionale dell’energia, si costruiranno centrali elettriche da rinnovabili per un milione di megawatt. Se una volta, non molti anni fa, green economy ed economia circolare potevano essere percepite come scelte per anime belle, oggi – complice anche la crisi contro la quale si sono dimostrati efficaci anticorpi – sono non solo una delle principali armi contro i mutamenti climatici, i cui gravi effetti appaiono sempre più evidenti, ma una straordinaria frontiera per la competitività dei sistemi produttivi e delle imprese. Molte nostre aziende, incluse molte PMI, lo hanno capito già da tempo, come dimostrano i numeri e le storie di questa ottava edizione di GreenItaly.
Sono 355 mila, infatti, le imprese italiane dell’industria e dei servizi con dipendenti che hanno investito nel periodo 2011-2016, o prevedono di farlo entro la fine del 2017, in prodotti e tecnologie green. In pratica più di una su quattro, il 27,1% dell’intera imprenditoria extra-agricola con dipendenti. E nell’industria in senso stretto sono più di una su tre (33,7%): la green economy è, per un pezzo considerevole delle nostre imprese, un’occasione còlta. Solo quest’anno, anche sulla spinta dei primi segni tangibili di ripresa, ben 209 mila aziende hanno investito, o intendono farlo entro la fine del 2017, sulla sostenibilità e l’efficienza, con una quota sul totale (15,9%) che ha superato di 1,6 punti percentuali i livelli del 2011 (14,3%).
Anche perché green economy è sinonimo di competitività: che tra le imprese green è più elevata rispetto a quelle non green. Un dato evidente anche se limitiamo il confronto al raggruppamento per natura più competitivo dell’economia nazionale, quello delle medie imprese industriali (50-499 dipendenti): la quota di medie imprese industriali green che si attendono nel 2017 un aumento degli ordinativi sia nazionali che esteri è infatti superiore rispetto alle altre (rispettivamente 45% vs 38% e 54% vs 47%).
Il salto innovativo che la green economy riesce a far compiere alle imprese trae forza anche dal forte connubio “green-R&S”, perché, ad esempio, le medie imprese industriali che investiranno quest’anno in ricerca e sviluppo sono il 27% tra quelle che puntano sull’eco-efficienza e solo il 18% tra le altre.
Questo dato trova una conferma nei dati sui green jobs (ingegneri energetici o agricoltori biologici, esperti di acquisti verdi, tecnici meccatronici o installatori di impianti termici a basso impatto, ecc.), le cui assunzioni previste nel 2017 riguardano quasi 320 mila posizioni (se si considerano anche le assunzioni per le quali sono richieste competenze green se ne aggiungono altre 863 mila).
Nell’area aziendale della progettazione e della ricerca e sviluppo i green jobs rappresentano ben il 60% delle esigenze espresse dalle imprese. Questo tema si collega a doppio filo con il Piano Nazionale Impresa 4.0, ovvero l’impegno pubblico del governo per sostenere la quarta rivoluzione industriale. Molte delle tecnologie abilitanti richiamate nel Piano rispondono infatti a necessità delle imprese di ridurre impatti di tipo energetico e/o ambientale o di rendere i processi più efficienti (ad esempio riducendo sprechi e riutilizzando materiali). Non è un caso che le medie imprese industriali che investono nel green siano molto più a conoscenza delle altre delle misure contenute nel Piano (due terzi contro neanche la metà delle non investitrici green).
I green jobs, pur così importanti e di crescente interesse per il nostro sistema produttivo, sono figure che per le imprese sono di più difficile reperimento, per le quali è richiesta più esperienza e un livello di qualificazione più elevato. Aspetti che richiamano importanti implicazioni sul versante della formazione. Queste figure si caratterizzano poi per una maggiore stabilità contrattuale: le assunzioni a tempo indeterminato sono oltre il 46% nel caso dei green jobs, quando nel resto delle figure tale quota scende a poco più del 30%.
Il tema green entra anche nel mondo delle start up innovative iscritte alla sezione speciale del Registro delle Imprese ai sensi del decreto-legge 179/2012: nella prima metà di ottobre 2017, 1.173 delle 7.915 start up registrate (il 14,9%) sono ad alto valore tecnologico in ambito energetico.
La green economy trova la sua forza non solo nelle tecnologie e nelle innovazioni, ma anche nella sua ibridazione con la qualità: basti pensare che sono molto diffuse, tra le medie imprese industriali eco-investitrici, le segnalazioni che motivano l’aumento dell’export nel 2016 con la qualità dei prodotti/servizi superiore a quella dei concorrenti (46 contro 27%).
Dietro alla green economy esiste un modo di far economia “inclusivo” dal punto di vista produttivo, che guarda alla competitività secondo logiche di sistema attente alla tutela della comunità di riferimento: ben oltre due terzi delle medie imprese industriali che realizzano eco-investimenti forniscono apporti diretti allo sviluppo del territorio attraverso contributi finanziari o realizzazione in proprio di iniziative solidaristiche e culturali, nonché attraverso collaborazioni con soggetti locali o nazionali per progetti di sviluppo della comunità territoriale di riferimento (solo un terzo nel caso delle imprese non investitrici).
Queste imprese, incluse le PMI (anche se il loro contributo è probabilmente sottostimato a causa della difficoltà di tracciare gli investimenti green nelle aziende meno strutturate) hanno spinto l’intero sistema produttivo nazionale verso una leadership europea nelle performance ambientali. Leadership che fa il paio coi nostri primati internazionali nella competitività, e anzi che a questi primati contribuisce. Eurostat ci dice, infatti, che le imprese italiane, con 254 kg di materia prima per ogni milione di euro prodotto, non solo fanno molto meglio, impiegandone meno, della media Ue (448 kg), ma si piazzano seconde tra quelle delle grandi economie comunitarie dopo le britanniche (241 kg), davanti a Francia (326), Spagna (349) e ben avanti alla Germania (481). Dalla materia prima all’energia, dove si registra una dinamica analoga: siamo secondi tra i big player europei, dietro al solo Regno Unito. Dalle 16,6 tonnellate di petrolio equivalente per milione di euro del 2008 siamo passati a 13,7: la Gran Bretagna ne brucia 8,3, la Francia 14,4, la Spagna 15 e la Germania poco meno di 18. Piazzarsi secondi dopo la Gran Bretagna vale più di un ‘semplice’ secondo posto: quella di Londra, infatti, è un’economia in cui finanza e servizi giocano un ruolo molto importante, mentre la nostra è un’economia più legata alla manifattura.
’Italia fa molto bene anche nella riduzione dei rifiuti. Con 41,7 tonnellate per ogni milione di euro prodotto (3 in meno del 2008) siamo i più efficienti in Europa, di nuovo molto meglio della Germania (65,5 tonnellate). E nelle emissioni in atmosfera: secondi tra le cinque grandi economie comunitarie (101 tonnellate CO2, ultimi dati disponibili 2014), dietro solo alla Francia (86,5 t, in questo caso favorita dal nucleare) e, ancora una volta, davanti alla Germania (143,2 tonnellate).
“Non si tratta di conservare il passato, ma di mantenere le sue promesse”, ha scritto Theodor Adorno. A volte si dimentica che la vocazione italiana alla qualità parte dal passato per guardare al futuro. E questa tensione ha avuto proprio nella green economy – grazie anche ai nuovi consumi e stili di vita che stanno prendendo piede – uno strumento formidabile: per migliorare i processi produttivi, per realizzare prodotti migliori, più belli, più apprezzati e ‘responsabili’, il made in Italy ha puntato sul green. Negli appuntamenti internazionali a partire dalla COP23 di Bonn sul clima dovremo saper valorizzare questa tensione virtuosa del nostro sistema produttivo.
Questi risultati non rappresentano da soli la soluzione ai mali antichi del Paese: non solo il debito pubblico, ma le diseguaglianze sociali, l’economia in nero, quella criminale, il ritardo del Sud, una burocrazia inefficace e spesso soffocante. Sono però la prova che in campo c’è un’Italia coraggiosa in grado di guardare avanti, un’Italia competitiva e innovativa su cui fare leva: per molti aspetti una nuova Italia.
Per dirla con Edison, che di sfide se ne intendeva, “se fossimo ciò che siamo capaci di fare rimarremmo letteralmente sbalorditi”. Il Paese deve credere nelle imprese di questa GreenItaly: che puntando sulla sostenibilità e sull’economia circolare guadagnano in competitività, rispettando l’ambiente e le persone; che creano posti di lavoro facendo leva sui saperi tradizionali sposandoli a ricerca e innovazione. Dalle scelte di queste imprese potrebbe arrivare un futuro più desiderabile per il Paese, più equo, più sostenibile e insieme meno fragile di fronte alle crisi che ci attendono.
*Ermete Realacci, Presidente Fondazione Symbola
**Ivan Lo Bello, Presidente Unioncamere