Una delle ultime raccomandazioni nel vertice di governo ieri, secondo alcuni partecipanti, non ha riguardato i conti pubblici ma un argomento solo in parte separato: la Francia. Ieri sera a Palazzo Chigi quasi tutti hanno concordato che i rappresentanti di governo italiani dovrebbero discutere sul merito, ma evitare di cadere nelle provocazioni a volte un po’ gratuite di esponenti francesi che si sono ripetute in questi mesi. L’ultima ieri pomeriggio, quando il commissario Ue agli Affari monetari ed ex ministro delle Finanze di Parigi Pierre Moscovici ha detto che gli italiani «hanno fatto la scelta di un governo xenofobo».
Non che la discussione sia servita granché, perché il vicepremier Matteo Salvini ha subito risposto che Moscovici «parla a vanvera». Ma è la prima volta che arriva al tavolo di governo la consapevolezza che i duelli di insulti con Parigi o con Bruxelles non fanno che svalutare l’Italia in Europa e sui mercati; non fanno, alla fine, che ridurre i prezzi e rendere più facilmente scalabili le imprese del Paese da chiunque ambisca a comprarle.
Difficile dire se queste siano fra le preoccupazioni che ieri hanno contribuito a una parziale marcia indietro sui conti, né è chiaro se questa rassicurerà i mercati. Di certo resta un’infrazione alle regole europee di finanza pubblica, basata però sulla consapevolezza che un deficit sotto al 3% del prodotto lordo non può dar luogo a sanzioni anche se non evita una procedura europea.
Per adesso questa vicenda ha soprattutto acceso una spia nel governo su alcuni problemi di funzionamento. L’ingranaggio ha prodotto giganteschi equivoci, anche se fino alle riunioni decisive di giovedì scorso si era riunito più volte il cuore dell’esecutivo: il premier Giuseppe Conte, i vicepremier Luigi Di Maio e Matteo Salvini, il ministro dell’Economia Giovanni Tria e quello degli Esteri Enzo Moavero Milanesi; con loro, spesso, i viceministri dell’Economia Massimo Garavaglia (Lega) e Laura Castelli (M5S).
In quelle riunioni Tria, secondo alcuni testimoni, aveva condiviso il messaggio che poi avrebbe dato anche all’esterno: l’obiettivo di deficit per il 2019 sarebbe stato all’1,6% del Pil, al massimo dell’1,8%, senza incorrere in eccessivi problemi a Bruxelles. Con quei saldi sarebbe stato possibile finanziare un avvio della revisione sulle pensioni e del reddito di cittadinanza, oltre a varie riduzioni di tasse. Nessuno aveva dissentito. Neanche di Maio, anche se covava un problema: la dimensione della fetta di risorse per il reddito di cittadinanza non era stata discussa in dettaglio a quel tavolo se non quando era ormai molto tardi. Garavaglia per la Lega aveva stimato che le risorse per il programma del suo partito c’erano, dice un testimone, ma M5S non aveva fatto gli stessi calcoli. È stato poi il rilancio di Di Maio in extremis a spingere per emulazione anche Salvini nel chiedere e così che i due hanno fatto deflagrare l’ansia dei mercati. Fino alla mezza ritirata di ieri, che si fonda su alcuni dettagli ancora da definire in pieno: i beneficiari del reddito di cittadinanza possono perderlo se rifiutano una o due offerte di impiego, e chi sceglie la pensione prima dei 67 anni dovrà impegnarsi a non lavorare più.