Tutto ruota intorno a Giovanni Tria. A quello che farà o a quello che non farà il ministro dell’Economia. A Palazzo Chigi, sponda M5S, sono abbastanza certi: andrà via, dicono, a inizio gennaio. Si dimetterebbe dopo il bombardamento durato mesi che i grillini hanno scatenato contro i suoi uomini al Tesoro, nonostante alla fine sia riuscito a portare i gialloverdi su posizioni meno esplosive sul deficit. Un risultato che potrebbe anche bastargli per avere l’onore delle armi all’indomani dell’approvazione della manovra. È la scommessa dei 5 Stelle. Di certo, come ha confidato ad amici parlamentari, non reggerebbe un’altra sessione di bilancio di fuoco come questa.
Dal destino del ministro dell’Economia dipende il resto del rimpasto che da ieri non è più un tabù, visto che, al netto di una diplomatica smentita, anche Giuseppe Conte ieri l’ha evocato, auspicando che sia «condiviso e che non destabilizzi l’esperienza di governo». Il premier non parla a caso anche quando affronta l’ipotesi del «tagliando» del contratto tra Lega e M5S. Il tema c’è e se ne parla a Palazzo Chigi. I prossimi mesi saranno cruciali per gli equilibri di governo, appeso alla prospettiva di una probabile affermazione del Carroccio nel voto europeo.
Grillini e leghisti devono trovare nuove ragioni per stare insieme, temi su cui riscrivere il patto per rendere più lunga la vita dell’esecutivo. Ma soprattutto i 5 Stelle sentono l’urgenza di un cambiamento in corsa nella speranza di gestire il successo di Salvini. In questo quadro non deve apparire troppo strano che sia il M5S a spingere per un rimpasto light, mentre la Lega sembra più fredda e vorrebbe rinviare tutto a dopo le urne. «Non c’è fretta» va ripetendo Salvini consapevole che l’effetto domino che innescherebbe l’abbandono di Tria farebbe emergere i reali contrasti di una convivenza sempre meno facile.
La preda ambita dal Carroccio è quella che dal primo giorno in cui è nato il governo, Salvini si è lasciato sfuggire. Un ministero economico che paradossalmente non sia il Tesoro. Come all’origine dell’esperienza sovranista, la Lega punta alle Infrastrutture, in subordine allo Sviluppo economico, anche se sa bene che è al limite dell’impossibile smembrare il superministero che Luigi Di Maio si è cucito addosso. L’obiettivo è la poltrona di Danilo Toninelli, il ministro che è stato più volte messo nel mirino.
Con il maxi piano di investimenti promesso dal governo, il 2019 sarà un anno in cui si giocherà molto sul piano infrastrutturale. Ma proprio per questo, e perché il 2019 è anche l’anno della ricostruzione del ponte di Genova, né Conte né Di Maio vogliono cedere una casella tanto fondamentale. Piuttosto il M5S è disposto a lasciare alla Lega il dopo Tria. Un’offerta che però non alletterebbe troppo Salvini, non ora e non in queste condizioni. Entrambi, grillini e leghisti, considerano infatti il Tesoro “commissariato” dal Quirinale. La Lega otterrebbe al massimo un tecnico di area, o come dicono i 5 Stelle, «un altro Tria».
Meglio le Infrastrutture allora, sta ragionando Salvini, una vera e propria cabina di regia per recuperare le simpatie delle imprese che considerano una disgrazia la rimessa in discussione delle grandi opere come il Tav. Ma i nomi in ballo per il rimpasto non si limitano solo a Toninelli e Tria. Non è in cima alla lista ma Savona, insoddisfatto per un negoziato con l’Ue che ha un po’ sgonfiato a colpi di spread le sue teorie, potrebbe andar via. Di Maio, poi, ormai fatica a nascondere la distanza da Elisabetta Trenta, la ministra della Difesa che piace poco ai grillini, almeno a quelli che ricordano le battaglie antimilitariste del M5S. Salvini invece sarebbe pronto a rinunciare al suo fidatissimo Lorenzo Fontana, piazzato senza troppo entusiasmo alla Famiglia. Il leader lo vorrebbe sul campo per le Europee. Grazie alla sua lunga esperienza all’europarlamento dove ha costruito un’importante rete di contatti, il vicepremier lo considera il più adatto per mettere in piedi l’internazionale sovranista.