Le azioni di Trump fanno balenare nuovi livelli di instabilità all’orizzonte globale con la raffica di pesanti dazi e restrizioni sull’import di acciaio e alluminio e su una serie di prodotti tecnologicamente avanzati e ciò proprio quando, un decennio dopo l’inizio della crisi economica, il mondo sta sperimentando la più forte crescita da anni. Il Fmi l’attribuisce innanzitutto alla politica monetaria di stimolo.
È lecito chiedersi perciò quanto le politiche dell’amministrazione statunitense, alla luce di ciò che sta avvenendo, rischino di minare la solidità della ripresa insieme alle basi del sistema degli scambi globale e dell’alleanza occidentale. Trump ha puntato molto, in termini elettorali, sulla riduzione del deficit commerciale accusando gli altri Paesi, Cina in testa, ma Germania al seguito, di drenare proditoriamente crescita e ricchezza dagli Usa. Tuttavia è difficile sostenere tout court che crescita e lavoro vengano assorbiti altrove.
Grazie alle politiche antirecessive varate da Obama adesso l’economia Usa è tornata in salute. La disoccupazione si è dimezzata dal 10% del 2009 al 4,8% del 2016. Da quando Trump è alla Casa Bianca, i senza lavoro sono ulteriormente diminuiti al 4,1% mentre i salari reali sono cresciuti in media dello 0,8% e dell’1,05% per i lavoratori del manifatturiero. Sennonché, nel primo anno di presidenza Trump il deficit commerciale è aumentato del 12,1%, il livello più alto dal 2008. Con la Cina esso è cresciuto del 10%, tanto che Wilbur Ross, segretario al Commercio e falco anti-deficit, prendendo atto della forza cinese, ha ammesso che non è realistico fissare una scadenza per eliminare gli squilibri con Pechino. Il dollaro debole aiuta l’export, ma il gap si allarga perché gli americani hanno intensificato gli acquisti di beni esteri, anche se l’incremento delle paghe orarie resta minimo e l’inflazione debole. D’altronde Trump ha commesso un errore irreparabile con la brusca cancellazione del Tpp che ha dato un enorme vantaggio strategico alla Cina. Mentre il congelamento del Ttip – pur contestato anche in Europa – ha impedito quell’accordo di libero e più equo scambio che avrebbe rafforzato la collaborazione transatlantica.
In realtà mercantilismo, tariffe protezionistiche e deregulation cari a Trump non serviranno a correggere gli squilibri strutturali dell’industria americana, ma anzi ad accentuarli. La crescita Usa resta incatenata in un ritmo lento e ciò pone molti interrogativi sulla sua durata. Trump ha promesso una crescita sostenuta al 3% e rivendica a suo merito che, con il taglio delle tasse, molte compagnie abbiano annunciato bonus di fine anno per i lavoratori. Ma la storia insegna che l’ultima volta che le società americane usufruirono di un taglio di tasse, nel 2004, utilizzarono la liquidità soprattutto per buyback e dividendi.
Di fatto, la Fed stima che nel più lungo periodo la crescita resterà all’1,8%: solo una netta accelerazione nella produttività potrebbe incrementarla. La riforma fiscale dovrebbe incoraggiare le industrie in tal senso. Intanto, esse producono beni e servizi a un ritmo inferiore al loro potenziale, un segno di perdurante fiacchezza del sistema americano, e la capacità utilizzata resta al di sotto della media dei primi anni 70. Purtroppo, le minacce di guerra commerciale – che si concretizzino o no – gettano luce su una verità molto scomoda per l’alleato europeo. Poiché è evidente che, anche se l’obiettivo immediato delle misure protezionistiche di Trump è Pechino, l’Europa manifatturiera e agricola – e in particolare la Germania con la sua industria meccanica e automobilistica – resta nel mirino dell’amministrazione Usa che, nel tentativo di ridurre il gap commerciale, potrebbe imporre quote e restrizioni all’import in primis di acciaio e alluminio. Non a caso Trump ha recentemente evocato, per compiacere il suo elettorato in Pennsylvania, un’Ue matrigna che «uccide» gli Usa con il commercio.
Il punto è che, con queste scelte, gli Stati Uniti continuano la loro ritirata dalla leadership economica mondiale rischiando di comminare seri danni al resto del mondo, oltre che a sé stessi. Le minacce di antagonismi economici e politici nonché l’erosione delle regole del commercio mondiale minacciano di diventare sistemiche insieme alle diseguaglianze economiche e sociali, ai pericoli della cybersecurity e all’incidenza di fenomeni climatici estremi.