A Palazzo Chigi come al ministero dell’Economia continuano a dire che sono pronte delle contromisure, che è allo studio un possibile compromesso con la Commissione europea, una sorta di exit strategy per cercare di rasserenare i mercati.
E che dunque sarebbe intenzione del presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, organizzare un incontro nei prossimi giorni con Jean Claude Juncker, il presidente della Commissione, per trasformare l’evento in un momento di rasserenamento mediatico in cui l’Italia si direbbe pronta a limare di un decimale la manovra, portando il livello del deficit allo 2,3% sul Pil e rinunciando ad una piccola frazione di spesa corrente che non è destinata ad investimenti. Un sacrificio piccolo, che non cambierebbe di molto le cose, compresa la bocciatura della manovra da parte della Commissione, che potrebbe magari cambiare la «narrativa» che in queste settimane ha influenzato mercati e rendimenti dei titoli pubblici, quello di uno scontro senza confini fra Italia e Bruxelles.
Sono indiscrezioni, peraltro di una possibile mano tesa del nostro governo che è ufficialmente smentita dai due vicepremier. E’ più facile invece credere invece al segnale di allarme che in queste ore le banche italiane, attraverso i loro rappresentanti istituzionali o attraverso i vertici dei singoli istituti, stanno facendo arrivare in modo ufficioso all’esecutivo: il senso del messaggio è che non si può andare avanti a lungo in questo modo, che è già in atto «una chiusura generale dei rubinetti del credito», sia alle imprese che ai cittadini.
Il tutto corredato con analisi e cifre che fanno paura: dal giorno di insediamento del governo Conte banche e cittadini italiani, detentori di titoli pubblici, hanno visto svalutare i propri asset di circa 230 miliardi di euro, una situazione insostenibile, e soprattutto se destinata ad aggravarsi, come possibile, dopo i declassamenti o i giudizi negativi delle principali agenzie di rating internazionale.
Ma c’è di più: anche i principali indicatori economici, dalla fiducia generale delle imprese a quelle dei cittadini, sino a molti comparti della produzione industriale, segnalano che il Paese sta notevolmente rallentando. Le banche hanno girato l’allarme al governo e al sistema istituzionale nel suo complesso perché hanno il polso della situazione spesso in anticipo su altri istituti o sui dati ufficiali. Un quadro, quello di un Paese che potrebbe smettere di crescere, che fa a pugni con l’ottimismo del governo e la convinzione che la manovra sia la soluzione e non il problema.
A questo c’è da aggiungere la posizione di Confindustria, che appare altrettanto allarmata, come il sistema bancario nel suo complesso. Il presidente Vincenzo Boccia non esclude una giornata di mobilitazione della categoria per chiedere una manovra diversa, con misure più utili all’economia o maggiormente espansive. Sarebbe quasi clamoroso, ma a questo punto nessuno esclude più nulla.
«Sono tutte ipotesi possibili — ha affermato Boccia con una certa durezza—, il problema è l’alternativa. Se serve a far cambiare idea, se ne può parlare. I risultati di questa manovra sono oggetto di responsabilità di questo governo, non vorremmo che tra qualche mese non ci siano e la colpa è dell’Europa o di altri. Questo governo deve cominciare a fare i conti con le proprie responsabilità, dopodiché i corpi intermedi dello Stato possono fare molto in termini di proposte, di protesta, di denuncia di criticità, in toni più accesi o meno. Ma i contenuti sono questi. Non è nei toni che si fa la differenza ma nella capacità di capire che ci sono alcune criticità e nel caso cambiare».
«Se ci sarà crescita — conclude il presidente degli industriali italiani — questo governo ha creato una dimensione di successo, se non ci sarà non solo rende insostenibile la manovra ma perde credibilità». E sui risultati effettivi della manovra, Boccia aggiunge: «Siamo ottimisti nelle aspettative, ma pessimisti nelle previsioni». Anche queste parole verranno lette, attentamente, dai mercati.