Settantamila “figli di un dio minore”. Sono i lavoratori delle aziende dell’indotto legate alla crisi delle fabbriche italiane. I riflettori della politica e dell’opinione pubblica sono accesi sulle grandi emergenze industriali: Ilva, Whirlpool, Industria italiana autobus, Blutec, Aferpi, Alcoa… decine di migliaia di operai che rischiano il posto, le loro proteste, i vertici tra governativi. Ma restano nel cono d’ombra tantissimi altri lavoratori che in quelle fabbriche fanno manutenzione, pulizie, servono nelle mense, che trasportano i prodotti e le materie prime, forniscono componenti. E mentre l’azienda in prima fila affronta la crisi con tutta la strumentazione degli ammortizzatori sociali, per quelle dell’indotto la coperta delle tutele è cortissima, spesso non c’è proprio. Centinaia di imprese costrette a chiudere per la crisi di altri. Qualche numero che compone il mosaico dei 70mila: circa 2000 lavoratori nell’indotto della ex Ilva; i 500 dell’indotto Whirlpool a Napoli (più altrettanti legati comunque all’attività della fabbrica di lavatrici); i 1500 che gravitano o gravitavano intorno all’Industria Italiana Autobus (70 aziende, di cui 20 già chiuse); gli ultimi 50 lavoratori rimasti a Piombino dove la crisi dell’acciaieria ex Lucchini (oggi Jindal) ha praticamente cancellato l’indotto; 300 operai a Trieste dove sta per spegnersi l’altoforno della Ferriera.
E via via tutti gli altri epicentri della crisi industriale italiana, senza contare il gigante dell’automotive, sul quale l’ombra si è allargata proprio in questi giorni: nel caso le cifre sarebbero dirompenti, con 450 aziende dell’indotto di Fca per un totale di 58 mila lavoratori. D’altra parte l’intensità del terremoto industriale lascia intuire anche la forza delle scosse di assestamento: 160 tavoli di crisi aperti al ministero dello Sviluppo economico, per oltre 200 mila operai, più di 20 gruppi in amministrazione straordinaria con la cassa integrazione per cessazione (reintrodotta un anno fa dal primo governo Conte) che cresce al ritmo del 78%. Ecco, dietro a questi indicatori si nascondono i “figli di un dio minore” dell’indotto. Per loro, sulla carta, gli stessi ammortizzatori sociali delle fabbriche principali, asciugati peraltro dal Jobs Act: dunque, nelle circa 20 “Aree di crisi industriale complessa” la cassa integrazione straordinaria (24 mesi prorogabili con norme straordinarie) o i contratti di solidarietà (36 mesi); negli altri casi la cassa straordinaria che per ristrutturazioni dura 24 mesi, con possibili proroghe di 12 o 6 mesi. Per il resto, mobilità (l’anticamera al licenziamento) e Naspi (l’assegno di disoccupazione). Tutto questo, appunto, sulla carta.
Ma, in realtà, succede che molte aziende dell’indotto fanno parte di settori senza ammortizzatori e, soprattutto, accade che nelle fasi successive all’esplodere della crisi gli enti locali decidano a chi distribuirli e a chi no. Senza contare il problema delle risorse stanziate dallo Stato: «Non sembrano esserci problemi per gli ammortizzatori 2019, a parte il rebus delle domande di c assa per cessazione schizzate nelle ultime due settimane — dice Corrado Ezio Barachetti, responsabile mercato del lavoro Cgil — ma la nuova legge di Bilancio non fa cenno a lavoro e occupazione, mentre andrebbero prorogati gli ammortizzatori per 173 aziende e 220 mila addetti». Secondo Michele De Palma, responsabile auto Fiom, non è solo una questione di giustizia sociale: «A pagare le crisi sono soprattutto i precari e le aziende dell’indotto. Così si perdono intere filiere produttive». E Massimo Brancato della Cgil, segnala un’altra emergenza: «Per accompagnare le imprese nelle ristrutturazioni serve molto tempo, ma il restringimento degli ammortizzatori non aiuta». Roberto Mastrosimone, prima di diventare segretario Fiom in Sicilia, lavorava alla Fiat di Termini Imerese, oggi in amministrazione straordinaria dopo il fallimento Blutec: «I lavoratori dell’indotto durante la notte pulivano gli impianti che noi avremmo usato il giorno dopo. Sono stati nostri colleghi per oltre vent’anni. Quando Fiat se ne è andata loro hanno perso il lavoro, mentre noi ancora combattiamo grazie agli ammortizzatori e all’attenzione dell’opinione pubblica che conosce la Fiat ma nemmeno immagina il mondo che c’è dietro». Dietro ci sono più di 300 lavoratori che a Termini non hanno più futuro, tra licenziamenti e briciole di ammortizzatori sociali.