Per mesi a Palazzo Chigi ci sono stati due governi, ed è difficile che da oggi tornino a essere uno. Il primo a sapere che sarà «difficile» è il premier. Ora che l’alleanza giallo-verde si è numericamente rovesciata, Conte è consapevole di non avere pressoché margini per svolgere il suo ruolo di «mediatore» — peraltro già contestato dal Carroccio — né di avere strumenti per resistere alle pressioni di Salvini. Visto il successo elettorale, il Carroccio si appresta a una competizione a tutto campo con il Movimento: in termini di programmi però, non certo di poltrone. Il che rende tutto molto più complicato, siccome l’obiettivo leghista non sarà il rimpasto, ma lanciare un’Opa sulla coalizione.
Di fatto il presidente del Consiglio è tagliato fuori, sarà una sorta di osservatore interno. E la sua idea di voler «riprendere subito in mano i dossier più importanti», insieme all’auspicio che «si mettano da parte le liti», sono frasi di circostanza. Semmai la tesi che «i toni non hanno giovato», danno il senso della resa e chiaramente sono riferite alla linea imposta in campagna elettorale da Di Maio. Ma ormai è tardi. E Conte aspetta solo di vedere come Salvini dispiegherà la sua azione. Sarà una richiesta da «prendere o lasciare» verso l’altro vicepremier, sarà una mossa che ne cela un’altra: se non venissero assecondati i suoi progetti, infatti, il ministro dell’Interno potrebbe sciogliere il «contratto» e presentarsi davanti al Paese immune dalla colpa di aver aperto la crisi per calcoli di partito.
Il punto è se Di Maio, pesantemente ridimensionato dalle urne e senza un piano di riserva, avrà ancora la forza (prima che la voglia) di accettare le condizioni dell’alleato-avversario. Lo scontro con Salvini, nel disperato tentativo di recuperare terreno, ha finito per destabilizzare il ramo sul quale il governo stava appeso. La foto del Paese che le urne consegnano, è però diversa dalla foto di Palazzo, ancora espressione del voto di un anno fa. In Parlamento M5S è il partito del 32%. E questo paradossalmente non aiuterà Di Maio, perché non c’è dubbio che l’ala movimentista dei grillini lo spingerà a non fare ulteriori concessioni alla Lega, pena — se non la frattura dei gruppi — la perdita della leadership a cinquestelle. Giocare senza carte in mano, mentre Salvini ne ha due, è come dichiarare di aver già perso la partita. Ma anche Salvini non potrà mostrarsi troppo disponibile, anche per lui sono limitati i margini da offrire per la mediazione.
È vero, il segretario del Carroccio può vantare oggi una presa ferrea sul suo gruppo dirigente, ma per evitare la crisi di governo e non riconsegnarsi al vecchio centrodestra, dovrà portare risultati: la Tav, l’autonomia regionale, la separazione delle carriere dei magistrati, una politica economica centrata sulla riduzione delle tasse e che dovrà essere «prioritaria» rispetto alle richieste dei grillini. È su questi punti che ieri ha ricevuto il voto di «fiducia» dagli elettori, e non potrà fallire.
Ecco il «prendere o lasciare» con Di Maio. E in questo duello tra vice premier, Conte è laterale, (quasi) ininfluente. D’altronde i risultati delle Europee contrastano con l’immagine di un quadro politico già vecchio, espressione di equilibri del passato. Lo testimonia il sorpasso del Pd su M5S: è un dato che pone inoltre fine al primato del blocco giallo-verde sulle forze della Seconda Repubblica. E che diverrà un problema per lo stesso Salvini, se davvero Berlusconi sarà riuscito a restare in piedi. Il capo della Lega vorrebbe evitare il rapporto con FI, ma non potrà fare a meno di calcolare la somma dei partiti di centro-destra e paragonarla alla somma dei partiti di governo, che in prospettiva tenderà ad essere sempre più «minoritaria». Ed è un attimo perdere il treno…