La ricerca di una maggioranza di governo, dopo le elezioni dello scorso 4 marzo, appare complicata. Perché nessun partito è in grado di imporre le proprie scelte. Neppure il M5s, indubbio vincitore della recente competizione elettorale. E nessun partito ha un “potenziale di coalizione” adeguato. È, cioè, in grado di raccogliere intorno a sé altri partiti, altri gruppi politici. Il Centro-destra, l’unica coalizione ad avere affrontato la prova elettorale con un risultato significativo, è minacciato dal M5s. Che lo vorrebbe “dividere”, per formare il nuovo governo.
Separando “il grano dal loglio”. Cioè, la Lega da FI. È questa, infatti, la condizione posta da Luigi Di Maio a Matteo Salvini, per governare insieme. Abbandonare Silvio Berlusconi. Lasciarlo fuori. Non solo dalla prossima, possibile, maggioranza. Ma anche dal gioco politico. In alternativa, come minaccia, Di Maio evoca l’intesa con il PD. Riproponendo la “politica dei due forni”, utilizzata (e definita così) da Giulio Andreotti. Quando, a partire dagli Anni Sessanta, lasciava aperta, alla DC, la possibilità di allearsi con il PSI o con i laici di centro (il PLI, PRI, PSDI). E, quindi, anche con il PCI. Per esercitare pressione (e anche di più) sugli altri partiti.
Tuttavia, l’iniziativa del leader M5s non ha solo ragioni – e finalità – tattiche. Riflette anche la conoscenza degli orientamenti della propria base elettorale. Che appare larga e composita, come in passato. E, per questo, difficile da (man)tenere insieme. Senza tensioni o, peggio, lacerazioni.
Se analizziamo i dati del sondaggio realizzato due settimane fa – e quindi due settimane dopo il voto – da Demos e LaPolis (Università di Urbino), al proposito, emergono indicazioni molto chiare. Gli elettori del M5s, infatti, si definiscono, politicamente, più vicini alla Lega (23%) che agli altri partiti. Mentre verso Forza Italia dimostrano un’attenzione molto più limitata (7%). Metà, rispetto al PD. Queste valutazioni si ri-presentano, rafforzate, in riferimento ai leader. La base del M5s, infatti, valuta molto positivamente il Capo della Lega, Matteo Salvini (42%). Mentre esprime distacco – a dir poco – nei confronti di Silvio Berlusconi (15%). Migliore appare, semmai, il giudizio su Pietro Grasso, leader di LeU.
Parallelamente, gli elettori del M5s apprezzano (seppure in “larga minoranza”) la prospettiva di un governo con la Lega (38%). Ma deprecano (per non dire “disprezzano”) la possibilità di allargare l’intesa a FI. È difficile per Di Maio, con queste premesse, accettare la condizione posta da Salvini.
Cioè, il coinvolgimento di FI e di Berlusconi in vista del futuro governo. Il problema, meglio: il vincolo, è che FI e Berlusconi, per la Lega, costituiscono una scelta – quasi – obbligata. Perché si sono presentati insieme alle elezioni politiche. E in “coalizione” (con i Fd’I) sono stati i più votati. Non solo. La Lega, con FI, ha ottenuto un risultato imprevisto – dagli stessi leghisti. E senza precedenti. Così, in questo caso, le “affinità elettive” della Lega si scontrano con le “ostilità elettive” del M5s. In entrambi i casi, difficili da superare. Perché FI è l’alleato “storico”, per la Lega. Attualmente, apprezzato da quasi metà della base elettorale leghista. Mentre è il bersaglio privilegiato del ri- sentimento “ a 5 stelle”. Per ragioni facili da intuire. Due, in particolare.
Anzitutto e soprattutto, perché Berlusconi e FI identificano l’establishment. Politico, economico, mediatico. Il “ nemico” da battere e da abbattere. Il riferimento comune che ha fornito al M5s consensi e argomenti, presso elettori di diverso orientamento. Di diversa provenienza politica. Un mix composito, difficile da mantenere unito. Senza un bersaglio con- diviso.
In secondo luogo, Berlusconi e FI rappresentano il principale avversario nell’area del mercato elettorale dove il M5s si è imposto, in misura perfino inattesa, lo scorso 4 marzo. Cioè, il Mezzogiorno. Unica zona nella quale la Lega Nazionale di Salvini non sia riuscita a sfondare definitivamente, nonostante gli indubbi progressi dimostrati. Per questo M5s e Lega appaiono, soprattutto, nella strategia politica ed elettorale di Luigi Di Maio, “ complementari”. Artefici di un “ contratto” di reciproco interesse. Fra il primo partito in Italia, unico a “ rappresentare” il Sud. E una Lega proiettata oltre il Po, nelle regioni del Centro.
Ma radicata e insediata soprattutto a Nord. Per la stessa ragione, l’intesa con il M5s appare rischiosa, alla Lega. Se ne venissero esclusi Berlusconi e FI. Oggi, soci di minoranza, nel patto che li “ lega” da 25 anni.
Con vantaggio reciproco. Ma, ancora oggi, soprattutto per Salvini. Perché Berlusconi e FI operano da garanti, di fronte alle autorità della UE. E perché la Lega e FI governano insieme nel Lombardo- Veneto. E in Liguria. Dunque, in gran parte del Nord.
Peraltro, l’alleanza con il PD, usata da Di Maio come arma di ricatto, in effetti, risulta poco credibile. Respinta ufficialmente dal PD, a sua volta alle prese con la leadership contestata, ma ancora effettiva, di Matteo Renzi. Che, peraltro, gli elettori del M5s apprezzano ancor meno di Berlusconi. Ma, soprattutto, solo una quota limitata degli elettori PD si dichiara “ vicino” al M5s.
Anche perché molti altri hanno già abbandonato il Pd- R, a favore del ( non) partito guidato da Di Maio. Così è difficile prevedere il futuro prossimo del nostro sistema politico. In cerca di alleanze e maggioranze.
Costruite sulla sfiducia reciproca. E su radicate “ ostilità elettive”.