Presidente Conte, sulla crisi Iran-Usa il governo italiano è stato quasi silente. Solo cautela? O si tratta di un sostegno implicito all’azione di Trump?
«La cautela in una situazione come questa è d’obbligo. In questo momento tutta la nostra attenzione deve essere concentrata ad evitare un’ulteriore escalation, che rischierebbe di superare un punto di non ritorno. Per conseguire questo obiettivo è prioritario promuovere un’azione europea forte e coesa per richiamare tutti a moderazione e responsabilità, pur nella comprensione delle esigenze di sicurezza dei nostri alleati».
Ma la pratica dell’omicidio mirato messa in atto con Soleimani non merita un giudizio di merito?
«Stiamo parlando di vicende delicate e complesse che, per essere valutate a pieno, richiedono anche informazioni di intelligence decisive per pesare tutti gli elementi».
Salvini accusa: «In politica estera Conte ignorato e Italia assente».
«Non replico, non è il migliore frangente per le polemiche di politica interna. Preferisco lavorare con impegno e serietà per favorire una de-escalation. Ho sentito poco fa il Presidente iracheno Salih, parlerò presto con la Cancelliera Merkel e continuerò a mantenere in queste ore i contatti con tutti i principali leader».
L’ex premier D’Alema suggerisce all’Italia di promuovere una missione Ue sul campo. È d’accordo?
«Come sa, l’Italia è già presente in Iraq nel quadro della coalizione antiterrorismo. Non c’è dubbio che in questa fase l’Ue possa avere un ruolo strategico ed è necessario delineare rapidamente modalità con cui svolgere questo ruolo capitalizzando il valore aggiunto che l’Europa può dare rispetto ad altri attori. Al momento la priorità va, come detto, a favorire un abbassamento della tensione attraverso i canali della diplomazia».
Lei ha ricevuto un endorsement diretto da Trump poco prima della formazione del nuovo esecutivo. Ma governa con una forza, il Pd, naturalmente vicina ai Dem Usa. Rischia di essere un’altra contraddizione in seno alla politica estera del governo?
«La profondità e l’ampiezza delle nostre storiche relazioni con gli Stati Uniti, nei loro diversi profili politico, economico, ma anche culturale e umano, sono tali da prescindere dai rapporti tra singole forze politiche. Anche se naturalmente le relazioni, anche personali, fra le rispettive leadership possono avere il loro peso. Di certo nel governo c’è piena condivisione dell’assoluta centralità del rapporto transatlantico, come dimostra ad esempio la presenza del ministro Guerini al mio fianco al vertice Nato di Londra dello scorso dicembre».
Quanto è preoccupato per i soldati italiani sul campo nella regione?
«Siamo preoccupati ma soprattutto vigili. Stiamo facendo e faremo il possibile per garantire la sicurezza dei nostri militari, in raccordo con alleati e partner. Ricordiamo che le nostre truppe sono nella regione per svolgere una funzione essenziale di sostegno alle autorità locali nel contrasto al terrorismo e alla violenza e questa è un’attività di cui rivendichiamo non solo la concretezza ed efficacia ma anche la piena li nearità e coerenza con i nostri valori».
La vicenda libica è strettamente connessa a quella mediorientale. Anche qui l’Italia è stata accusata di tenere una linea troppo vaga tra i due contendenti libici. Rischiamo di perdere terreno rispetto a chi, come per esempio Francia e Turchia, si muove con più nettezza?
«Nessuna vaghezza, solo coerenza. Dal primo giorno abbiamo detto che l’offensiva su Tripoli avrebbe solo generato altra violenza e non avrebbe mai condotto a una soluzione sostenibile. Siamo stati, purtroppo, dei buoni profeti. A maggior ragione non crediamo che ora intervenire militarmente a favore dell’una o dell’altra parte possa contribuire alla stabilità. Oggi più che mai investiamo tutto il nostro capitale su una soluzione politica, in particolare sostenendo gli sforzi delle Nazioni Unite e, adesso, della Germania nella preparazione della Conferenza di Berlino. Non ci sono altre strade per la pace».
Verifica di governo. Lei dice di non temere le fibrillazioni nel M5S. Ma non c’è il rischio che la maggioranza si frammenti fino a diventare ingovernabile?
«Oggi più che mai deve primeggiare il senso di responsabilità e il bene comune. Siamo di fronte forse all’ultima chiamata per una vera stagione riformatrice. I cittadini ci guardano e dobbiamo essere all’altezza delle attese che sono riposte in questo governo. Per questo sono fiducioso. Bisogna lavorare fianco a fianco per realizzare alcune essenziali riforme che il Paese attende da tempo. Detto questo, le fuoriuscite di questi giorni dal M5S non mi rallegrano».
I partiti della maggioranza concordano sulla necessità di una nuova agenda di governo. Lei ascolterà e medierà. Ma quali sono le priorità di Conte?
«Semplificare e innovare il Paese è fondamentale. Abbiamo risorse e capitale umano per essere protagonisti nei prossimi anni, ma ancora è tutto troppo bloccato. Dobbiamo riuscire a tradurre in concreto le potenzialità dell’Italia, che deve esprimere una leadership negli investimenti green. Prioritario, altresì, il sostegno alle famiglie e alla natalità. Dobbiamo riformare l’Irpef per abbassare ancora di più le tasse e proseguire nella lotta all’evasione. Continuare la lotta contro le disuguaglianze e far ripartire il Sud. Dobbiamo migliorare il servizio “giustizia” compresa la giustizia tributaria, che va ridotta a soli due gradi di giudizio».
A proposito di giustizia, è entrata in vigore la nuova prescrizione targata M5S. Lei è un giurista. Davvero non vede rischi per lo Stato di diritto?
«Si parla quasi esclusivamente di prescrizione senza discutere tutti i vari aspetti di riforma del processo penale. Il vero rischio è rappresentato da uno Stato che non sa dare risposte ai cittadini, non riesce a concludere i processi in tempi brevi, non fa scontare ai colpevoli la giusta pena. La garanzia per il sistema è assicurata dal fatto che insieme allo stop alla prescrizione abbiamo messo in campo una azione di investimenti nel settore giustizia che non si vedeva da 20 anni. Dobbiamo varare la riforma del processo penale per velocizzare ancor più i processi e assicurare la loro ragionevole durata».
Italia viva minaccia di smarcarsi sulla giustizia. È Renzi la minaccia principale alla tenuta del governo?
«Italia Viva afferma di voler dare un contributo importante, così come le altre forze di maggioranza. Ora abbiamo l’occasione per farlo. Abbiamo la possibilità di realizzare riforme tanto attese, sarebbe imperdonabile, anche sul piano politico, non cogliere questa opportunità. L’instabilità è un danno, di cui rispondere peraltro davanti agli italiani».
Crisi industriali. Nessuna autocritica per le incertezze dei governi che ha presieduto nel rapporto con Arcelor?
«L’Ilva è un problema che abbiamo ereditato e che ci trasciniamo da anni. Detto questo, se si riferisce allo scudo penale, è emerso evidente come non sia questo il vero problema. Questo governo sta facendo tutto il possibile per rilanciare Taranto, nelle condizioni che sono note a tutti».
Da Alitalia alle banche in crisi si fa largo l’idea di un ruolo più incisivo dello Stato in economia. Solo emergenza o è giusto teorizzare un nuovo dirigismo?
«Non parlerei di neo-dirigismo economico o di nazionalizzazioni. Stiamo facendo i conti con scenari molto complessi, con il pressing di Paesi concorrenti. Per questo, anche se ritengo preferibile la soluzione di mercato, un intervento pubblico ben mirato si rivela necessario per presidiare in modo più efficiente alcuni settori strategici che sono in evidente difficoltà».
Autostrade, la vicenda deve arrivare presto a una conclusione. Vede margini per un compromesso o è giusto seguire la strada della revoca della concessione?
«Stiamo per chiudere questo dossier. Ci confronteremo all’interno della maggioranza perché tutti siano coinvolti nella dimensione politica della decisione finale. Ma è evidente che a fondamento di tale decisione ci dovranno essere le valutazioni tecnico-giuridiche sull’inadempimento del concessionario. Solo così rispetteremo la memoria delle vittime della tragedia del ponte Morandi e garantiremo la tutela degli interessi pubblici. Posso dire che giunti a questo stadio di analisi è evidente che qualcuno ha sbagliato e ha commesso negligenze gravi e imperdonabili».
Lei ha cominciato la sua esperienza a palazzo Chigi schiacciato tra i due partiti che la sostenevano. Come è cambiata la sua vita ora che i sondaggi di gradimento la danno in cima alle classifiche?
«Ho l’onore e l’orgoglio di rappresentare il mio Paese, questo lo considero il principale cambiamento nella mia vita. I sondaggi non solleticano la mia vanità. Resto con i piedi per terra. Dico sempre al mio staff che i cimiteri sono pieni di persone che si ritenevano indispensabili».
La sua volontà di non lasciare la politica finito il mandato ha scaldato più il Pd che il M5S. Oggi si sente più vicino ai dem?
«Questa è una ricostruzione che amate voi giornalisti, ma che non corrisponde al vero. Io lavoro bene con tutte le forze politiche».
Dini e Monti, i civil servants che sono andati a palazzo Chigi non hanno resistito alla tentazione di fondare un nuovo partito. Lei è sicuro di resistere?
«Come ho già ribadito più volte non ho intenzione di fondare un partito. Non ho questa velleità e poi ritengo che aggiungere nuove forze contribuendo alla ulteriore frammentazione dello scenario politico non sia la migliore soluzione per affrontare le sfide future».
Revelli ha usato per lei l’espressione populismo gentile. Le piace?
«La trovo pertinente, sì».
E quando la definiscono democristiano?
«Stiamo parlando di una forza, la Democrazia cristiana, che è stato un pilastro della Prima Repubblica e ha espresso figure, come De Gasperi e Moro, capaci di proiettare nel futuro l’azione e il pensiero di governo. Ma è una etichetta del tempo che fu e io preferisco vivere nel mio tempo».
Qualcuno preferisce un’altra definizione: trasformista.
«Questa invece è una definizione che trovo fuorviante e non pertinente. Io non ho cambiato le mie idee. Anche sul tema chiave, l’immigrazione, sfido a trovare una virgola di diversità nelle mie posizioni pubbliche sul tema. Mi dicono: eri sovranista e ora il tuo cuore batte a sinistra. Ma sono quello di sempre. La prima volta che andai in tv, quando ero candidato a fare il ministro della Pa, dissi chiaramente che la mia formazione era il cattolicesimo democratico e dissi in più di una intervista che in passato avevo votato a sinistra. Certo, ero ben cosciente che il governo che nacque con la Lega non sarebbe stato di sinistra».
Lo rifarebbe oggi quel governo?
«Con il senno di poi, sarebbe facile dire di no. Ma il senno di poi in politica non sempre ha un senso.
Certo sono rimasto molto deluso dalla leadership di Salvini. Però penso che quel governo abbia avuto una funzione storica, incanalando nelle istituzioni la rabbia e la voglia di cambiamento ed evitando derive pericolose che invece si sono manifestate in altri Paesi».
Lei disse del 2019: «Sarà un anno bellissimo». Si sente di ripetere la previsione?
«Feci quella battuta incalzato dalle domande di un giornalista che prospettava catastrofi. Ma naturalmente ero ben conscio della complessità del quadro economico. Del nuovo anno dico solo che abbiamo fatto un lavoro anche migliore delle previsioni con la manovra approvata. Ci sono le condizioni per dare al Paese le risposte che chiede al governo».