“Sono salito in Generali perchè tengo molto all’italianità”, ha detto Francesco Gaetano Caltagirone all’ultima assemblea di Generali la scorsa settimana a Trieste per l’approvazione del bilancio. E pazienza se nelle stesse ore a Roma, all’assemblea della sua Cementir, presieduta dal figlio Francesco, si celebrava la vendita degli asset italiani ai tedeschi di Heidelberg. Forse la battuta di Caltagirone è rivolta al prossimo bicentenario della nascita di Karl Marx, che preconizzò come nel moderno capitalismo “il capitale non ha patria”.
Sull’italianità del gruppo assicurativo si sono tornati a consumare fiumi d’inchiostro perché il variegato blocco dei soci tricolore nelle scorse settimane ha acquistato azioni sul mercato fino a detenere il 23,12% del capitale del Leone di Trieste contro il 19,79% del 2017. Fra questi spiccano Caltagirone, ora al 4% e la famiglia Benetton (3,05%). In cima a tutti resta Mediobanca con il 12,95%, Leonardo Del Vecchio con il 3,15%, la famiglia De Agostini con l’1,7%. Un peso leggermente superiore a quello dei fondi esteri presenti all’assemblea con il 22,91% del capitale (24,17% nel 2016). Va detto che Mediobanca ha annunciato da tempo l’intenzione di scendere, vendendo il 3% o anche di più entro il 2019. Sullo sfondo resta Unicredit, primo azionista di Mediobanca che vigila attentamente su quanto accade a Trieste.
Questo 3% o poco più messo sul mercato da Mediobanca potrebbe cambiare gli equilibri alla prossima assemblea di aprile 2019 quando si voterà per il rinnovo del cda, e i giochi in Borsa sono già iniziati, anche a vedere l’andamento del titolo in Borsa, tornato ai massimi da inizio 2016 e in forte rimonta rispetto al settore. In un anno l’indice assicurativo europeo è salito del 7,15% mentre Generali svetta con un +24%, meglio dei rivali tedeschi di Allianz (19%), leader europeo, dei francesi di Axa (5%) e di Zurich (12%), guidato dall’ex ad di Generali Mario Greco, cacciato nel 2016.
Oggi al timone c’è il francese Philippe Donnet, già top manager di Axa, che sta riuscendo nell’impresa di far quadrare il cerchio: ridurre il perimetro della compagnia (4 miliardi di euro di dismissioni in 6 anni) cedendo quanto non è ritenuto redditizio e strategico per concentrarsi sui mercati profittevoli e cercare in questo modo di ridurre il fortissimo gap che Generali ha avuto nell’ultimo decennio nei confronti dei suoi competitor, che hanno visto moltiplicarsi il valore (Allianz capitalizza 85,2 miliardi, Axa 57 mentre Generali solo 25, poco più del patrimonio netto) mentre il Leone di Trieste si muoveva con una sotto performance clamorosa.
Mentre nel settore assicurativo i concorrenti crescevano anche a suon di acquisizioni e di ingressi in nuovi mercati Generali restava “nana” perché finanziarne la crescita per l’azionista di controllo molto relativo (Mediobanca) e i soci italiani avrebbe significato fare aumenti di capitale o perderne il controllo. Meglio quindi accontentarsi di staccare i dividendi a costo di perdere quote di mercato.
Oggi Generali resta una compagnia virtualmente scalabile che gestisce 462 miliardi di euro di asset ed è un nodo cruciale della finanza, non solo italiana. È presente in oltre 60 paesi (prima erano quasi 80) e in Italia è leader nella gestione dei risparmi e della previdenza. Basti pensare che 65 miliardi di titoli di Stato italiani fanno riferimento agli investimenti finanziari di Generali come sottostante di polizze assicurative. E Generali è un attore importante anche nelle infrastrutture e negli investimenti immobiliari: nel mattone è fra i primi 10 investitori al mondo e questo sicuramente non è sgradito a Caltagirone che come ogni bravo immobiliarista ha sempre qualche affare da proporre. Fra i progetti in cantiere a Trieste c’è proprio la rotazione del portafoglio investimenti per aumentare la redditività puntando sul real estate, dove nei prossimi tre anni dovrebbero arrivare a 35 miliardi, e sugli asset alternativi con l’obiettivo di incrementare la redditività.
Il nuovo piano industriale di Generali verrà presentato il 21 novembre a Milano e sarà basato, secondo Donnet, su “ottimizzazione finanziaria espansione profittevole e trasformazione” mentre quello in corso (2015-2018) dovrebbe vedere centrati tutti i target con 5 miliardi di dividendi distribuiti nel triennio (quest’anno la cedola è salita del 6% a 0,85 euro per azione, il 5% del valore del titolo), 7 miliardi di cassa operativa generata e ritorno sul patrimonio ben sopra l’obiettivo del 13%. La raccolta premi di Generali è generata per oltre il 65% dall’estero, con Italia Germania e Francia che pesano il 74%. Dopo il fallito assalto a inizio 2017 di Intesa Sanpaolo, respinto con il supporto di Mediobanca, il futuro di Generali è nel modello ibrido. Quello dove le banche fanno concorrenza alle compagnie assicurative e vendono polizze e le seconde fanno le banche e propongono soluzioni d’investimento e risparmio gestito.
Il piano industriale di Generali prevede proprio questo perché le polizze vita tradizionali in tempi di tassi d’interesse sottozero sono una iattura per la compagnie visti i requisiti di solvibilità richiesti dai regolatori. Meglio spostare sul consumatore il rischio finanziario e Generali punta massicciamente su prodotti come le unit linked, ovvero su fondi e risparmio gestito dentro le polizze vendute agli assicurati. Una formula finanziaria sotto il cappello assicurativo che garantisce alle compagnie, e alle banche che le collocano, ricche commissioni senza rischi di dover offrire rendimenti garantiti o minimi. Nel bilancio 2017 l’incremento dei margini sulle polizze di Generali si deve a questa strategia. E se poi i tassi dovessero salire sarà tutto grasso che cola.