Si moltiplicano i progetti, ma non c’è ancora un piano, su come spendere i soldi del Recovery Fund. Nel frattempo la politica economica del governo è ferma alla fase uno. Mentre lunedì veniva annunciata un’ambiziosa riforma degli ammortizzatori sociali, gli atti di governo registrano solo il varo di un decreto tappabuchi. Offre la possibilità alle imprese che hanno già fruito della Cassa Integrazione per 14 settimane di utilizzare subito, senza soluzione di continuità, le 4 settimane aggiuntive previste dal decreto rilancio a partire da settembre. E proroga di un mese i termini per richiedere il reddito d’emergenza.
I rinvii generano rinvii. Si sposta in là di qualche settimana la fine della cassa integrazione per allungare il blocco dei licenziamenti, che sarebbe insostenibile per imprese in difficoltà se dovessero pagare gli stipendi ai loro dipendenti. E si rinvia il blocco dei licenziamenti per allungare la cassa. Si torna così a respirare l’atmosfera dei giorni del lockdown, prorogato di due settimane in due settimane. Ma mentre quelle proroghe servivano a contenere il contagio, il rinvio della fine del lockdown dei licenziamenti corre il rischio opposto. Spostando la fine del blocco più in là si rischia di causare una valanga di licenziamenti non appena questo verrà, come appare inevitabile, rimosso. E a quel punto perdere il lavoro sarà molto più costoso per i lavoratori coinvolti. I regimi di protezione dell’impiego e gli ammortizzatori sociali in costanza di rapporto di lavoro servono proprio ad evitare che molti perdano il lavoro allo stesso tempo. In un mercato del lavoro con molti disoccupati e pochi posti vacanti la probabilità di trovare un impiego alternativo tende allo zero.
Questi rinvii a catena sono dettati dalle pressioni dei sindacati (Landini ha chiesto di bloccare i licenziamenti fino alla fine dell’anno!) e delle organizzazioni datoriali, che vogliono allungare la copertura della cassa. Come sempre nessuno pensa a chi già oggi un lavoro non ce l’ha. Il blocco dei licenziamenti non ci ha impedito di perdere quasi mezzo milione di posti di lavoro in soli tre mesi, un primato negativo. Le imprese hanno smesso di assumere e di prorogare i contratti a tempo determinato, il cui rinnovo è ostacolato anche dalla burocrazia imposta dal Decreto Dignità. Se si vuole contenere le perdite occupazionali bisogna stimolare i rinnovi di contratti a tempo determinato (più alla portata di imprese che navigano tra le nebbie dell’incertezza) e sostenere le assunzioni, a partire da quelle pianificate nel pubblico impiego. Prendendo i dati della relazione tecnica al decreto varato ieri, si può stimare che ogni settimana di Cassa in più costi come 100.000 assunzioni di dipendenti pubblici per un anno. E non è vero che Covid-19 impedisce di fare i concorsi pubblici. Basta fare test on line come quelli richiesti per entrare in molte università, tarati sulle esigenze della PA e poi completare le selezioni con orali presso le singole amministrazioni. Assumendo fin da subito operatori sanitari si potrebbero anche utilizzare i soldi, già oggi disponibili, del Mes.
Una crisi è il periodo peggiore per riformare gli ammortizzatori sociali. Ma il governo farà bene a prendersi sul serio unificando, come ha dichiarato il Presidente Conte, i troppi strumenti oggi esistenti e semplificando le procedure per l’erogazione delle prestazioni. Unificare in questo momento significa rafforzare la solidarietà fra lavoratori. Per un lavoratore obbligato a non lavorare in questi mesi ce n’è almeno un altro che ha continuato a lavorare e a percepire il proprio stipendio pieno e che è stato costretto a risparmiare dalla chiusura di molte possibilità di consumo. Se tutte le casse integrazione accedono allo stesso fondo saranno i lavoratori fortunati a pagare la cassa a chi ha avuto la sfortuna di trovarsi occupato nella ristorazione o nello spettacolo all’inizio della pandemia. Bene che paghino per la Cassa anche i dipendenti pubblici che potranno accedervi in circostanze eccezionali, come quelle che stiamo attraversando. La solidarietà sarà ancora più forte se si mantengono aliquote contributive diverse a seconda della dimensione dell’impresa.
Semplificare le procedure significa ridurre i passaggi: ad esempio richiedere alle imprese di presentare subito il modulo SR41 con l’Iban dei lavoratori e comunicare all’Inps tempestivamente chi ha fruito della cassa e per quante ore in modo tale da permettere all’istituto di liquidare la prestazione al dipendente pochi giorni dopo la data in cui avrebbe percepito la normale retribuzione. Stupisce che tra chi oggi dichiara guerra alla burocrazia vi sia chi suggerisce di creare nuove amministrazioni per gestire gli ammortizzatori. Il fallimento annunciato dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro è la vivida testimonianza di cosa accade in questi casi. Bisogna, semmai, ridurre le burocrazie coinvolte. Gli ammortizzatori sociali devono saper conciliare protezione con stimolo alla ricerca di un impiego alternativo, un compito che non può essere affidato ad amministrazioni diverse. Chi eroga la prestazione deve essere in condizione di sospenderla se il beneficiario non partecipa a un corso di formazione che gli permetta un domani di lavorare anche in remoto perché è lì che sono oggi concentrati i posti vacanti. E deve anche poter sollecitare il lavoratore a zero ore a fare lavoretti in imprese diverse dalla sua che hanno maggiori prospettive di crescita, cumulando la nuova retribuzione con la prestazione, entro certi limiti. Non vogliamo che la cassa diventi l’anticamera della disoccupazione.
La riforma degli ammortizzatori non potrà, infine, procedere per compartimenti stagni. Nel momento in cui si cambia la Cassa Integrazione occorrerà rivedere la Naspi allargandola ai lavoratori autonomi senza dipendenti e lo stesso Reddito di Cittadinanza, che ha mostrato tutti i suoi limiti in questa crisi. Da rete di protezione di ultima istanza, si è visto commissariato da un’altra rete d’emergenza perché la sua rete aveva maglie troppo larghe.