È sempre più l’Eurozona l’anello debole dell’economia mondiale: a marzo, l’attività manifatturiera della regione ha subito un nuovo colpo, proprio mentre in Cina si registra un timido rimbalzo e gli Stati Uniti si confermano in espansione, malgrado qualche incognita.
Secondo l’indagine diffusa ieri dalla società di consulenza con base a Londra, Ihs Markit, l’indice Pmi del settore manifatturiero dell’Eurozona è sceso a 47,5 punti a marzo, da 49,3 di febbraio, attestandosi ai minimi da aprile 2013. «Il risultato – spiega una nota di Markit – è strettamente legato al peggioramento della domanda. I nuovi ordini sono diminuiti al tasso più sostenuto dal 2012, come pure le esportazioni, incluse quelle all’interno dell’Eurozona». Tensioni commerciali, Brexit e crisi dell’auto sono le cause principali del rallentamento.
In Germania, il Pmi è sceso a 44,1 punti da 47,6 di febbraio, toccando il livello più basso da luglio 2012. Il dato definitivo, quello diffuso ieri, è peggiore anche delle stime flash del 22 marzo (44,7). I nuovi ordinativi hanno segnato una flessione a 39,3 punti da 42,5, un livello che non si vedeva da aprile del 2009.
Il manifatturiero tedesco è in contrazione (vale a dire sotto quota 50) da tre mesi e sta addirittura riducendo la forza lavoro, per la prima volta da tre anni: i timori che la locomotiva d’Europa possa entrare in recessione crescono. Una prospettiva insidiosa per un Paese come l’Italia (il Pmi scende a 47,4 punti da 47,7) integrato nelle catene del valore della Germania e che già è in difficoltà.
Anche la Francia è in contrazione (49,7 da 51,5). Mentre la Spagna si segnala una volta di più come un’eccezione nel panorama europeo: il Pmi torna in espansione, a quota 50,9, in ripresa rispetto al 49,9 di febbraio.
Positivo anche il dato del Regno Unito, con un Pmi a 55,1, dal 52 di febbraio, ai massimi degli ultimi 13 mesi. Secondo gli analisti, però, non c’è molto da festeggiare, perché l’attività sarebbe drogata dai preparativi per la Brexit: le imprese stanno aumentando le scorte a livelli record per mettersi al riparo da un futuro prossimo molto preoccupante.
Sempre ieri, cattive notizie per l’Eurozona sono arrivate anche sul fronte dell’inflazione. Eurostat ha rilevato che i prezzi al consumo a marzo sono cresciuti dell’1,4%, in calo dall’1,5% di febbraio e allontanandosi ancora un po’ dal target del (quasi) 2% stabilito dalla Banca centrale europea. Si tratta del tasso d’inflazione più basso da quasi un anno. Al netto delle componenti volatili (energia, alimentari, alcolici e tabacco), l’indice core è fermo allo 0,8% (dall’1% del mese precedente). La dinamica dei prezzi resta quindi fredda, nonostante il miglioramento registrato nel mercato del lavoro, con la disoccupazione stabile al 7,8% a febbraio, ai minimi da dieci anni.
Negli Usa, l’indice Ism del settore manifatturiero è salito a 55,3 punti dai 54,5 di febbraio, con segnali di miglioramento in arrivo da produzione e nuovi ordini. Il sottoindice sull’occupazione è addirittura balzato di 5 punti a 57,5. Tuttavia, l’inversione della curva dei rendimenti sui titoli di Stato, verificatasi la settimana scorsa, è un pessimo auspicio per la tenuta della congiuntura statunitense.
In risalita, contro le attese, anche l’attività manifatturiera in Cina: l’indice Pmi-Caixin è passato da 49,9 punti a 50,8: è il primo aumento da novembre. Tornano a crescere, seppure molto lentamente, gli ordini interni e all’export. E le imprese riprendono ad assumere, dopo oltre cinque anni.