Tra le tante scissioni tra economia e politica che vanno registrate questa è particolarmente significativa. Mentre le spinte sovraniste acquistano vigore un po’ in tutta Europa, e sicuramente sta accadendo in Italia, l’integrazione delle filiere produttive manifatturiere va in direzione esattamente contraria. Si rafforza il coordinamento delle catene produttive e questa tendenza rende più forte il nostro sistema, che pur in un gioco che si è fatto estremamente competitivo dimostra di farsi valere. Questa premessa è importante per affrontare con la dovuta attenzione i riflessi congiunturali delle relazioni economiche tra il sistema Germania e l’Italia. Due mesi fa la direzione Studi e Ricerche di Intesa Sanpaolo aveva elaborato un’indagine per conto della Camera di Commercio Italo-Germanica sul «valore delle aziende tedesche in Italia» alla quale vale la pena di attingere e dalla quale conviene partire per arrivare successivamente ai temi legati al Pil di un anno come il 2019 che rischia di presentarsi «horribilis».
Una presenza stabile…
Le aziende tedesche in Italia sono 1.900 per un totale di 168 mila addetti e il fatturato, escluso il settore finanziario e assicurativo, raggiunge 72,5 miliardi di euro concentrati nella distribuzione e nel manifatturiero. La presenza industriale è concentrata nei tradizionali settori di punta tedeschi (chimica, meccanica, automotive, farmaceutica ed elettrotecnica). L’evoluzione dell’occupazione è stabile visto che hanno conservato il livello degli addetti negli ultimi anni, con una tenuta migliore rispetto al totale delle multinazionali e, soprattutto, rispetto alla media delle imprese italiane. In virtù di questa presenza consistente l’Italia risulta la sesta meta degli investimenti esteri tedeschi e le partecipate germaniche sono al terzo posto per fatturato/addetti tra le multinazionali presenti nella Penisola.
…e di valore
Se dai dati per così dire di stock passiamo ai flussi la fotografia dei rapporti italo-tedeschi risulta ancora più nitida e degna di interesse. Persino nella moda, italico vanto, la Germania apporta valore aggiunto al nostro sistema: è il primo Paese per contributo e la quota è salita dall’1,9% del 2000 al 2,3% del 2014. Se passiamo al settore metalmeccanico è forse quasi scontato ricordare come la quota di valore aggiunto più alta che affluisce nelle filiere internazionalizzate italiane è proprio made in Germany. E anche in questo caso, se prendiamo in esame gli stessi tre lustri, la quota sale dal 3,7 al 5,1 per cento. È significativo sottolineare questi incrementi perché in realtà le filiere italiane di entrambi i settori risultano più chiuse rispetto a quelle di altri Paesi europei e questo grazie alla forza qualitativa del nostro indotto (che contribuisce da solo per il 74,4%).
Ancora più interessante è l’esame della filiera dell’automotive, la più complessa per la varietà degli apporti manifatturieri che richiede: anche in questo caso l’output tedesco nei nostri confronti è segnalato in crescita perché nel settore dei veicoli le filiere si stanno aprendo più che in altri comparti. Se poi rovesciamo l’angolo visuale e prendiamo in esame il contributo dell’Italia alle filiere tedesche le tendenze sono omogenee a quelle descritte finora e vanno anch’esse in direzione della crescita.
Lo scambio con l’Italia
Nel settore metalmeccanico l’Italia è appaiata alla Francia come miglior contributore alle filiere tedesche e il trend al rialzo è giudicato in maniera positiva dagli operatori di mercato germanici perché in qualche maniera funge da barriera di qualità (e non protezionista) rispetto alla penetrazione delle esportazioni cinesi.
Anche nel campo dell’automotive l’output italiano è segnalato in salita (con una quota del 5,4%) e il dato vale come una medaglia al petto della nostra componentistica perché dimostra come sia stata capace di bilanciare la concorrenza dell’aggregato dei Paesi dell’Est Europa, Polonia in testa, che ha dalla sua un significativo vantaggio competitivo in termini di costo del lavoro. E del resto basta pensare alle personalità imprenditoriali della componentistica automotive tricolore — da Alberto Bombassei a Maurizio Stirpe e Marco Bonometti, tutti con incarichi di prima fila nella Confindustria di ieri e di oggi — per avere un facile riscontro. Se queste sono le caratteristiche di una maggiore integrazione che passa dai beni intermedi, è chiaro che il rallentamento dell’industria tedesca preoccupi molto il nostro sistema della fornitura per le ovvie ricadute immediate, ma è anche vero che la recessione tecnica italiana finisce per penalizzare il sistema produttivo tedesco sia in termini immediati sia in chiave di rischio-contagio.
Un politologo potrebbe farne discendere la conseguenza che le classi dirigenti tedesche non hanno nessuna convenienza di medio periodo a un drastico downsizing del sistema Italia.