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Se si fossero messi tutti d’accordo, non sarebbero riusciti a trovare una tempistica migliore. Proprio ora che i riflettori sono puntati su Fiat Chrysler Automobiles e sul matrimonio – impari – con Psa, esce “Fabbrica Futuro“, un libro che guarda al caso Fiat-Fca dal punto di vista del lavoro in fabbrica.
Obiettivo del testo è far comprendere quali sono le mansioni concrete che devono svolgere gli operai lungo le linee di montaggio di un moderno stabilimento automobilistico italiano, nei suoi aspetti positivi e nelle sue contraddizioni. Il volume, pubblicato da Egea e in uscita giovedì 7 novembre, è opere del sindacalista Marco Bentivogli e del giornalista del Messaggero Diodato Pirone.
Su autorizzazione degli autori, riproduciamo alcuni passaggi particolarmente significativi, relativi al caso Fiat-Fca.
Messaggio sviluppista dalla fabbrica sgarrupata
Non gli risparmiarono nulla, quel giorno, a Sergio Marchionne. Era il 13 dicembre del 2011, Santa Lucia. Con una conferenza stampa in fabbrica, veniva riaperto lo stabilimento di Pomigliano dal quale non usciva uno spillo dalla fine del 2007. Fu uno spartiacque, quel giorno. Segnò la nascita della nuova Mirafiori italiana. Fiat tornava a parlare al Paese da una fabbrica. Come aveva fatto nel 1923 con l’architettura rivoluzionaria del Lingotto, nel ’39 con la sterminata Mirafiori destinata a fare il miracolo economico, nel ’72 inaugurando sei stabilimenti nel Sud per fermare l’emigrazione e nel ’93 con la «fabbrica integrata» di Melfi che doveva rispondere all’invasione giapponese e allo strapotere tedesco. Quel 13 dicembre, lontano dai filari di macchinari di Pomigliano ancora odorosi di nuovo, lo spread volava a quota 575, la recessione mordeva, i giornali erano un puzzle di tagli e di tasse. Ma quel giorno Marchionne intendeva lanciare un messaggio sviluppista dal cuore del Sud più sgarrupato. «Guardatevi attorno», disse a un paio di centinaia di giornalisti nel mezzo di una sala che si affacciava sulle linee di montaggio. «La Fiat troverà il capitale per fare autovetture senza aiuti dallo Stato ma non vogliamo ostacoli alla produzione.» Non convinse nessuno. La domanda di una giornalista di France Presse fu una rasoiata: «Ha ripreso al lavoro pochi operai della vecchia fabbrica, non si sente un traditore?». La replica non fu all’altezza: «Prenderemo quelli che serviranno». Sipario.
La reporter transalpina non poteva sapere che, seduto sullo sgabello di fianco a quello di Sergio Marchionne, c’era un brillante e altissimo ingegnere tedesco-brasiliano, Stefan Ketter, allora capo del manufacturing, ovvero di tutte le fabbriche Fiat. Un paio di anni prima fra lui e Marchionne si era svolto qualcosa di molto simile a un braccio di ferro. Marchionne voleva tenere aperto lo stabilimento di Pomigliano a costo di riportare in patria dalla Polonia quel gioiellino della Panda. La squadra di Ketter, ma anche buona parte del gruppo dirigente del Lingotto, era molto perplessa. All’epoca, a Pomigliano era ancora viva la maledizione Alfasud (era il nome dello stabilimento al momento della sua fondazione da parte dell’Alfa Romeo statale, alla fine degli anni Sessanta) che significava microscioperi, assenteismo, qualità modesta. Insomma, un posto dove si lavorava male. Circolavano mille leggende metropolitane come quella della dozzina di cani randagi, sfamati dagli operai, che giravano nei capannoni, verniciatura compresa, ovvero in un luogo dove non dovrebbe volare neanche un capello. Qualcuno sosteneva che la gente della fabbrica era abituata a mangiare lungo le linee di montaggio, il che finiva per attirare qualche topo. Inoltre, le condizioni della mensa e degli spogliatoi lasciavano a desiderare e a ogni cambio turno pioveva un diluvio di urla e lamentele. Nel 2007 comunque, ultimo anno durante il quale la fabbrica aveva trottato, si erano verificati ben 150 episodi di microconflittualità, spesso per motivi futili. Un posto abbandonato da Dio e dagli uomini. Marchionne, per rimettere in piedi la baracca, nel quadro dell’unica operazione europea di rientro in Occidente dall’Est di un prodotto automobilistico, assegnò a Ketter un bel gruzzolo di milioni (ne furono investiti 800 in tutto, compresa la progettazione della vettura) per ricostruirla dalle fondamenta e carta bianca su personale e dirigenti, impiegati compresi. Nel piano originale era previsto un solo modo per non bruciare quella montagna di soldi: produrre Panda a manetta. Cioè per sei giorni, sabato compreso, e H24. Un pezzo ogni minuto, anzi meno, giorno e notte, più o meno sull’onda dei ritmi già raggiunti in Polonia. In sintesi, si trattava di costruire un piano credibile di rientro di produzione (back reshoring, in gergo) dall’estero partendo da un dato scioccante: il salario degli operai polacchi dello stabilimento di Tychy all’epoca era di poco superiore ai 400 euro al mese.
Ketter fece due cose per trasformare il ranocchio in un principe. La prima fu quella di imbottire la fabbrica di robot dando vita a un reparto lastratura spettacolare dove tutt’oggi campeggia la cosiddetta «cattedrale», ovvero un maxi-groviglio di robot concentrati in pochissimi metri, le cui proboscidi arancioni operano tutte assieme come un gruppo di ballerini affiatati. Lo spettacolo si svolge nella penombra, perché le luci sono spente per risparmiare energia, ma di spettacolo trattasi: in un nanosecondo i robot si intrufolano nella scocca come dita di un chirurgo, si allungano, si girano, saldano le lamiere fra il fragore delle scintille e poi si risollevano nell’ordine nervoso disegnato da un grande coreografo.
La seconda novità fu ancora più innovativa perché riguardava gli uomini: rompere le gerarchie all’interno dello stabilimento e ripensare il modo di lavorare fino a riscrivere lo stesso rapporto fra operai e Fiat. Su questo nodo si scatenò una battaglia politico-sindacale gigantesca, combattuta – a leggere i giornali – soprattutto su tagli alle pause e penalizzazioni sull’assenteismo. Ma il vero valore aggiunto del contratto scritto ad hoc per Pomigliano (che si rivelò poi il punto di partenza per l’addio di Fiat alla Confindustria) fu un altro: Marchionne chiese ai sindacati di impedire i microscioperi, accettando multe se i loro delegati li avessero indetti a freddo, cioè senza attivare un confronto con l’azienda. Fim-Cisl, Uilm-Uil e Fismic accettarono. La Fiom no. Ne nacque una guerra termonucleare che oscurò ciò che accadde davvero. A Pomigliano, furono introdotte in modo scientifico, per la prima volta in una fabbrica Fiat, cinque novità che – attraverso l’applicazione del sistema operativo World Class Manufacturing (Wcm) – ora sono regola in tutti gli stabilimenti FCca dagli Usa alla Cina e che andiamo a conoscere nei dettagli.
La prima: un’organizzazione del lavoro basata su squadre di sette operai, coordinate (attenzione, coordinate, non comandate) da un operaio team leader con pieni poteri sulla sua stazione di montaggio. Traduzione: da allora nelle fabbriche italiane di Fca circa 1.500 operai non lavorano con le mani ma con la testa e gli altri operai Fca non dipendono più direttamente da un lontano dirigente ma da un collega con il quale magari la domenica vanno allo stadio. Nasce così la figura dell’operaio che incorpora anche funzioni intellettive e il modello organizzativo della fabbrica piatta. E solo chi ricorda il regime di «religione della gerarchia» che vigeva nella vecchia Fiat può percepire l’epocalità del passaggio.
Seconda novità: l’ergonomia. Tutti i movimenti degli operai furono (e continuano a essere) studiati per evitare o spezzettare mansioni faticose, velocizzando la linea.
Terza rottura: prima gli operai dovevano solo eseguire. Da quel dicembre 2011 si chiede loro di proporre soluzioni per migliorare la produttività.
Quarta: fu chiusa la palazzina degli uffici e le scrivanie degli impiegati furono collocate lungo le linee di montaggio dalle quali restano tutt’oggi separate solo da un cristallo. Nacque il cosiddetto «acquario».
Quinta: dal direttore di fabbrica all’ultimo assunto tutti indossarono la stessa identica tuta con l’obiettivo di fare squadra.
Risultato? Una Panda ogni 55 secondi e assenteismo medio all’1,7%.
Un gioiello di efficienza sotto il Vesuvio, in un’area fra le più problematiche d’Italia. In quel giorno di Santa Lucia tutto questo era impensabile. Oggi, invece, la fabbrica di Pomigliano è talmente consolidata nel suo ruolo di capitale del lavoro Fca che squadre dei suoi tecnici sono chiamate per dare una mano in altre fabbriche. Recentemente è accaduto a Sterling Heights, a poche miglia dal centro di Detroit, nel gigantesco plant dei pick-up Ram da 2,5 tonnellate, per accompagnare gli americani nel raggiungimento dell’incredibile obiettivo di assemblarne uno ogni 45 secondi. Qualche tempo fa qui è venuta una nutrita delegazione della Volkswagen a studiarne «il caso». C’erano i responsabili della produzione della piccola Up! e della gigantesca Q7, accompagnati da alcuni capi unità, da un responsabile dell’analisi del lavoro, da un direttore di stabilimento e persino da un responsabile della metodologia di lavoro. I tedeschi a Napoli per studiare il lavoro! Tuttavia, Sergio Marchionne non trovò mai le parole giuste per spiegare la rivoluzione di Pomigliano. Anni dopo, nella colonna sonora di uno di quegli spot televisivi che lasciano il segno, affidata al rapper Victor, infilò una frase che oggi può suonare come la sua risposta alla giornalista di France Presse: «I’m the gamechanger / And I walk with danger / I don’t need a f lag to be revolutionary».
Nuove regole in fabbrica: l’ingegnera raccoglie la cartaccia davanti agli operai
L’abbiamo detto: a Pomigliano quella rivoluzione del lavoro in fabbrica ora è diventata il modello produttivo di Fca. Il passaggio è avvenuto attraverso l’applicazione di una serie di tecnicalità che presto esamineremo una a una. Ma quello che è importante sottolineare è che la fabbrica «nuova» non è figlia dei tecnicismi e dello strapotere dei robot, ma di una svolta culturale molto complessa, che ha cambiato in profondità il modo di lavorare non solo lungo la linea di montaggio ma anche di tutta la catena gerarchica. Per capire questo dato, e per rendersi conto che la svolta è maturata e ha avuto successo nel luogo più improbabile che si potesse immaginare, è importante ripercorrere la storia di Pomigliano. La domanda da cui partire è: perché questo plant era considerato lo stabilimento d’auto peggiore d’Europa? E ancora: come ha fatto, tra il 2012 e il 2013, a vincere il premio tedesco di miglior fabbrica europea assegnato da Automobil Produktion e a raggiungere il livello «oro», il più alto, nella classifica interna dei plant Fca?
Tutto cominciò alla fine del 2007. La Grande Crisi finanziaria non era ancora nell’aria. Lo stabilimento campano (fondato dal Duce nel ’38 e con una storia complessa alle spalle come ha ricostruito Giuseppe Pesce in Alfasud, una storia italiana1) aveva una tradizione di scarsa efficienza fin da quando, all’inizio degli anni Settanta, gli era stata affidata la missione di assemblare una nuova Alfa Romeo di taglia media che fu chiamata Alfasud. Il passaggio a Fiat, una quindicina d’anni dopo, non aveva migliorato molto la situazione: la stella delle partecipazioni statali continuava a brillare in fabbrica e alcune abitudini del personale erano ormai irrealistiche. A complicare la gestione del plant c’era poi la catena di montaggio originaria, che era stata progettata male: era molto rigida, non prevedeva spazi di compensazione e flessibilità fra i vari settori della produzione, per cui bastava una «banale» assemblea di quaranta operai per bloccare tutta la produzione.
Un caso disperato. Ma alla fine del 2007 la domanda di auto ancora tirava e lo stabilimento era in piena produzione perché sfornava tre modelli Alfa Romeo: la 159, una berlina di grosse dimensioni, la 147, più piccola, e il modello sportivo Gtv. Nel corso dell’autunno di quell’anno si verificò un episodio destinato a lasciare il segno: una 159 – modello che all’epoca veniva venduto a 30-35.000 euro – arrivò al concessionario direttamente dalla fabbrica con i due sedili anteriori di colore diverso.
Fu la classica goccia che fece traboccare il vaso. Le proteste irridenti del concessionario determinarono alcuni giorni di lutto nel gruppo dirigente dello stabilimento. Ma soprattutto fecero scattare l’allarme rosso a Torino. All’epoca, lo sbarco in America non era all’orizzonte, ma Marchionne era già a buon punto nella sua opera di rovesciamento del calzino Fiat. Un giorno – così vuole la leggenda che ti raccontano quando vai a Pomigliano – sui capannoni dello stabilimento campano si sentì il rumore delle pale di un elicottero. Panico generale nella bella palazzina degli uffici, che era ancora il cuore pulsante del plant; di lì a poco si presenta come una furia l’amministratore delegato Sergio Marchionne. Inizia a parlare con il direttore, poi con i capi e poi chiede di poter girare per lo stabilimento. «Ma, dottore…», fiocca qualche perplessità. E lui: «Questa è casa mia e vado dove mi pare». Su quell’ispezione in Fiat regna tutt’ora un impenetrabile silenzio.
Fatto sta che Marchionne prese le misure più drastiche che si potevano. La notizia della chiusura provvisoria di Pomigliano fu riportata in un trafiletto de Il Sole 24 Ore e non raccolse l’attenzione che meritava: c’era qualcosa di unico ed eccezionale in quella decisione di Sergio Marchionne.
Quale manager italiano aveva mai fermato la produzione di una grande fabbrica per istruirne i lavoratori? Quello che successe in quei mesi di chiusura della fabbrica lo racconta uno degli istruttori. «Da parte nostra cominciammo a cercare persone che volevano impegnarsi di più», dice. «Ma ci colpì anche la spinta che venne dall’alto e soprattutto l’incontro con il nuovo responsabile della manifattura, che da un paio d’anni era stata affidata all’ingegner Stephan Ketter. Noi eravamo abituati a capi che chiedevano di realizzare “numeri”, erano dirigenti con l’ossessione dell’aumento della produzione.
Ce n’era uno in particolare che chiamavamo “mister 30%” perché ovunque andasse e qualunque problema si presentasse alla fine della riunione ci chiedeva di aumentare la produzione di un terzo». E che cosa cambiò con Ketter? «Girava intorno alle macchine», dice l’istruttore. «Le accarezzava, controllava piano piano le tolleranze, le distanze fra le porte e le scocche, fra il cofano e le fiancate. Si vedeva che badava al prodotto e alla sua qualità.»
Il fatto è che Pomigliano era diventato, a sua insaputa, il primo palcoscenico di una gigantesca trasformazione industriale che era stata scritta nei mesi precedenti. Dal 2006 Fiat aveva avviato un profondo cambio di cultura gestionale, decidendo di adottare il sistema operativo World Class Manufacturing (Wcm, ne parliamo compiutamente nel Capitolo 6) di derivazione giapponese. Ma già un anno prima, nel 2005, sulla linea della Grande Punto a Mirafiori, era arrivata una novità attesa da almeno vent’anni. Il Lingotto aveva deciso di cambiare la metrica del lavoro, cioè quel sistema che misura quanti pezzi produce un operaio.
A Torino, Fiat cominciò a sperimentare, insieme agli esperti della Fondazione Ergo, il nuovo sistema di metrica, Ergo-Uas, di derivazione tedesca ma di sviluppo italiano, che introdusse l’ergonomia sulla linea di montaggio. La novità era per certi aspetti clamorosa: Ergo-Uas obbligava capi e operai a pensare che lavorare meglio e senza fatica era un obiettivo comune. «L’implementazione di ogni processo complesso non può che essere graduale e partire da un esperimento», spiega l’ingegner Gabriele Caragnano, padre dell’Ergo-Uas e fra i massimi esperti italiani di organizzazione del lavoro. «Il gruppo dirigente di Fiat divenne piano piano sempre più consapevole di dover cercare una nuova frontiera nel proprio modo di interpretare il lavoro. Ebbero il coraggio di voltare pagina capendo che un linguaggio comune fra i capi e gli operai, fornito dalla misurazione neutrale dei carichi di lavoro assicurata dall’Ergo-Uas, avrebbe portato a un aumento della produttività».
*Estratto pubblicato sul sito industriaitaliana.it il 7 novembre 2019