Da più parti si suggerisce prudenza a chi conduce la campagna di primavera contro il Covid 19, il virus pestilenziale. È un consiglio saggio che tuttavia mette il Paese di fronte alla più drammatica delle contraddizioni. La si può riassumere così: da un lato gli aspetti misteriosi della pandemia e il rischio di nuovi contagi impongono la cautela nel ritorno alla normalità; dall’altro le imprese, gli imprenditori piccoli e grandi, l’intero sistema produttivo avrebbero bisogno non di cautela, ma di coraggio nel tornare al lavoro con lo slancio del dopoguerra. Sebbene, come ha ricordato un autorevole giurista, Sabino Cassese, «la pandemia non è una guerra» (ed è un punto rilevante da tenere a mente). Per come stanno le cose, «le scelte illogiche circa la fase 2» — affermazione del virologo Crisanti — non aiutano a risolvere il rebus da cui dipende il nostro futuro.
Peraltro la prudenza non riguarda solo la sfera sanitaria. Benché purtroppo sottovalutato, c’è un secondo aspetto in cui essa s’impone. Ed è altrettanto rilevante, a dir poco, perché tocca le libertà garantite a ogni cittadino dalla Costituzione. Una settimana dietro l’altra e un passo dopo l’altro, il ventaglio di alcune libertà fondamentali e soprattutto delle garanzie si è ristretto in nome dell’emergenza. Quasi tutto è avvenuto nella penombra normativa, senza un intervento del Parlamento ormai di fatto esautorato, attraverso una sequela di decreti del presidente del Consiglio che come tali non devono essere firmati dal Quirinale e non passano il vaglio delle due Camere.
Se c’è bisogno di prudenza nel riaprire il Paese per la fase 2, è innegabile che ci vorrebbe almeno la stessa prudenza prima di forzare i limiti della Carta costituzionale. Nei giorni scorsi poche voci si erano levate per sottolineare questo punto decisivo. Il già citato Cassese, in un’intervista al Dubbio raccolta da Paolo Armaroli. E Giovanni Maria Flick, ex presidente della Consulta, in un colloquio con Huffington Post . Si capisce allora quale peso abbia avuto nelle ultime ore l’intervento di Marta Cartabia, l’attuale presidente della Corte reduce dalla personale battaglia contro il virus.
«La Costituzione — sono sue parole — non contempla un diritto speciale per i tempi eccezionali, e ciò per una scelta consapevole, ma offre la bussola anche per navigare per l’alto mare aperto nei tempi di crisi». Vuol dire che non esiste nel nostro ordinamento la figura del sovrano che decide sullo stato d’emergenza, secondo la nota immagine di Carl Schmitt. O meglio, quel sovrano è ancora e sempre la Costituzione. Che non è mai sospesa come un caffè in un bar napoletano. I pieni poteri al governo non sono dietro l’angolo, dove basta andare a prenderli.
Semmai — ma solo in caso di guerra — li decide il Parlamento, dove i rappresentanti del popolo sono chiamati a confrontarsi e a votare (o meglio, così dovrebbe essere se il Parlamento rivendicasse la sua funzione istituzionale). Di sicuro quei poteri non li avoca a sé il presidente del Consiglio, chiunque egli sia, a colpi di decreto. Ecco perché è opportuna la messa a punto di Cassese: la pandemia non è una guerra. Se si smarriscono le proporzioni, il Paese scivola lungo una china pericolosa: forse solo per scarsa familiarità con la cornice costituzionale entro cui l’esecutivo, il premier e i ministri devono muoversi.
Ne deriva che il richiamo del presidente della Consulta non poteva essere più tempestivo e opportuno. È un monito a Conte e a chi lo asseconda. È un invito tra le righe alle forze politiche perché non chiudano gli occhi, pur mirando alla “concordia”. Ed è una sollecitazione indiretta al Parlamento affinché faccia sentire la sua voce. Si può supporre che Sergio Mattarella, estimatore di Marta Cartabia e un tempo suo collega alla Consulta, avrà apprezzato in cuor suo un’iniziativa che aiuta a purificare l’atmosfera intorno ai palazzi delle istituzioni.