Questa è la storia di un’azienda che negli ultimi cinque anni ha quasi raddoppiato i ricavi, che per i prossimi cinque ha in programma di replicare la performance e salire a quota un miliardo, che ha sempre fatto tutto senza debiti: solo con le proprie, robuste capacità di autofinanziamento, alimentato (tra l’altro) da una redditività ampiamente a doppia cifra. Questa è però anche, la storia di un’azienda con un proprietario particolare. E il fatto che sia l’Arcidiocesi di Bologna, a controllare la Faac, ha in qualche modo condizionato il racconto. Accento più sulle opere di bene che su un modello gestionale e di governance che andrebbe studiato – laicamente – in ipotetici master per azionisti, oltre che per manager. Luci piuù sulla «fabbrica dell’arcivescovo che sfama i poveri», che su ciò che lo rende possibile.
Ci sta. La Chiesa proprietaria di una multinazionale industriale, che vive di e sul mercato, non si era mai vista. E Matteo Zuppi, il cardinale-prete di strada che ha indicato la via, è uomo troppo di prima linea, su mille fronti, perché ogni cosa che fa non accenda i riflettori. Perciò va bene: fa parte del gioco, e delle regole dei media, che ogni volta che si parla di Faac si ricordi che fu lasciata alla Curia bolognese da Michelangelo Manini, figlio del fondatore Giuseppe, scomparso a soli 50 anni senza eredi diretti; che a contestare il lascito si palesarono in fretta cugini, zii, eccetera; che alla fine l’Arcidiocesi risolse in pace la diatriba, liberò l’asse ereditario, non vacillò neppure quando dall’allora socio del gruppo, la francese Somfy, arrivoò un’offerta (pare) da un miliardo. Passare alla cassa sarebbe stata la cosa più semplice. A Bologna scelsero l’opzione più impegnativa: essere loro a comprare e ad arrivare, con il 34% dei transalpini, al controllo assoluto.
Siamo tra il 2012 e il 2014. Don Matteo – niente «eminenza»: preferisce essere chiamato ancora così – arriva nella città delle due torri nel 2015. A Zola Predosa, dove ha sede il gruppo nato con i cancelli automatici (mai visti prima, da noi) e cresciuto a colpi di brevetti piuù o meno ovunque ci siano varchi a pedaggio elettronico (autostrade, o Ztl, o parcheggi), trova una squadra che eè riuscita a tenere la barra dritta nonostante le turbolenze della successione. Non ha dubbi: è con l’amministratore delegato Andrea Marcellan e il presidente Andrea Moschetti, uno dei tre trustee cui la Curia ha trasparentemente affidato la gestione delle azioni e dunque della società, che può partire l’esperimento impresa=innovazione=profitti=missione sociale. Con la benedizione, dicono, di Papa Francesco.
La fiducia è ripagata. Il fatturato sale, gli utili aumentano più che in proporzione, l’Arcidiocesi lascia il grosso in azienda perché venga reinvestito e si ritaglia una cedola – 10 milioni su 63, l’anno scorso – che redistribuisce sul territorio. Famiglie in difficoltà, disoccupati da reinserire nel mondo del lavoro, malati che non possono permettersi di curarsi: don Matteo aveva promesso che «tutti i dividendi saranno usati per la carità», e cosiì è. Da anni. Se unicità c’è, alla Faac, sta in ciò che il Cardinale riassume così: «È un’azienda “come tante altre”, nel senso che fa impresa al fine di creare valore per i propri azionisti. Quel valore, però, va poi a vantaggio della collettivitaà, di chi ha più bisogno».
Messa in questo modo, pare semplice. E infatti qua il racconto della parabola Faac di solito si ferma. Manca l’altra parte della storia. Il quotidiano, ciò che giorno dopo giorno ha reso possibili performance che hanno proiettato il gruppo a una leadership mondiale nel proprio settore. La piccola impresa fondata da Giuseppe Manini nel 1965, quando i cancelli di case e fabbriche restavano sempre aperti perché nessuno scendeva mai dall’auto per chiuderli e lui intuì che, se avesse trovato il modo di farlo a distanza, avrebbe creato un ricco mercato, oggi dà lavoro a oltre 2.700 persone. Ha 34 filiali nei cinque continenti. È una multinazionale a tutti gli effetti, che con altre multinazionali si confronta.
Fino a qui ce l’ha fatta crescendo solo con le proprie forze a ritmi da Champions. Era tra le imprese top performer dell’analisi L’Economia-ItalyPost nel 2019, lo sarà anche nell’edizione 2020 (l’appuntamento è con il numero speciale in uscita il 13 marzo). I suoi 283 milioni di fatturato 2012, l’anno della scomparsa di Manini, erano diventati 421 nei conti 2018, il che significa uno sviluppo medio annuo vicino al 7%. Parecchio di più, di bilancio in bilancio, è salita la redditività: 80 milioni di margine operativo equivalgono al 19% dei ricavi, 63 milioni di profitti netti su un patrimonio di 445 milioni danno un ritorno superiore al 14%.
La corsa non si è fermata nel 2019 – giro d’affari a 460 milioni, redditività sempre su – e non si fermerà nel 2020. Marcellan ha fissato l’obiettivo a 500 milioni e «sì», dice «l’ambizione è arrivare al miliardo nei prossimi cinque anni». È chiaro che non può accadere solo per crescita interna. Già ora le acquisizioni (tre soltanto nel 2019) contribuiscono alle percentuali di sviluppo per un po’ più della metà. Da adesso il gioco si farà ancora più serio: le dimensioni sono ormai tali che, dice l’amministratore delegato, «o consolidi o vieni consolidato».Nè il management né l’azionista hanno intenzione di lasciare che Faac diventi preda. Per quanto ricco possa essere l’assegno, e non è detto che a Bologna non siano già arrivate offerte, la posta qui non sono i soldi. È un progetto (non più un esperimento) che potremmo chiamare di «capitalismo sociale», facile da leggere in controluce nelle parole con cui don Matteo riassume la mission di Zola Predosa: «L’Arcidiocesi si è sempre astenuta dall’ingerire nella gestione operativa, ma ha indicato le priorità: tutto ciò che favorisce il welfare e la protezione di lavoratori, il perseguimento di una seria crescita aziendale, la necessaria ricerca – che significa anche lavoro per i giovani e innovazione – e uno sviluppo che possa assicurare sostenibilità di lungo periodo e robustezza alla società».
Non è pura filosofia. il Cardinale sa benissimo che la case history Faac può continuare con lo stesso tasso di successo ma richiede, a questo punto, un salto dimensionale anche a livello di investimenti. Se domani si presentasse la classica «occasioni irripetibile», la grossa acquisizione che da possibile preda ti trasforma in protagonista del consolidamento, Bologna potrebbe affrontarla ancora solo con l’autofinanziamento? No. Ma – guarda caso – il primo gennaio scorso fra il trust e la società operativa è comparsa una holding. Se – nel caso – la Faac Partecipazioni Industriali servisse proprio ad aprire il capitale?
*L’Economia, 10 febbraio 2020