In attesa che si chiariscano le nuove strategie del governo a sostegno dell’export, a partire dall’annuale convocazione della Cabina di regia sull’internazionalizzazione, i dati sul confronto con i principali paesi europei segnalano in evoluzione le dinamiche dei nostri esportatori. Un’analisi del Centro studi Confindustria, basata sui valori medi unitari esportati dalla manifattura italiana, evidenzia che le imprese impegnate nelle vendite all’estero sono riuscite a migliorare il livello qualitativo delle produzioni in misura sostanzialmente maggiore rispetto ai competitor. Senza che questo abbia compromesso i valori complessivi o la capacità di penetrazione nei nuovi mercati, consentendo anzi in questi ultimi dinamiche di prezzo anche più favorevoli rispetto ai mercati in cui eravamo già presenti.
Tuttavia questo percorso non è stato univoco. L’avanzamento è molto più evidente in mercati che rappresentano ancora delle nicchie del commercio globale, oppure negli scambi con altre economie avanzate o dell’Est Europa, e nei settori manifatturieri più tradizionali. Serviranno probabilmente strategie di politica commerciale mirate per avere gli stessi risultati su larga scala, cioè anche sui più grandi mercati mondiali e in settori più innovativi.
Secondo lo studio CsC, realizzato da Livio Romano, le differenze negative dell’Italia rispetto a Germania, Francia e Regno Unito in termini di valori medi unitari esportati per gli stessi prodotti, venduti negli stessi mercati di destinazione e nelle medesime quantità, si sono ridotte in modo significativo rispetto agli inizi del 2000, mentre è continuata a crescere la differenza positiva rispetto alla Spagna. Per la prima volta, nel 2017, la capacità di “fare prezzo” degli esportatori inglesi è stata eguagliata dalle imprese italiane, colmando un gap di 19 punti percentuali dal 2002 nei valori medi unitari tra i due paesi. Invece gli esportatori francesi nel 2017 avevano 4 punti di vantaggio, comunque 13 in meno rispetto al 2002. La scelta di puntare sulla qualità è stata quasi inevitabile di fronte all’impossibilità di competere sullo stesso piano – cioè quello dei costi – con economie emergenti come la Cina, la Turchia, l’Est Europa. Di qui strategie più orientate alla creatività, alla specializzazione, all’attenzione ai dettagli e alla cura del cliente.
Come detto, l’incremento della qualità e del prezzo non ha compromesso i volumi. Lo studio stima che – relativamente al periodo pre recessione, 2002-2007 – a un aumento del 10% del valore medio unitario esportato si è associato un incremento del valore dell’export dello 0,8%. Dopo la crisi, tra il 2007 e il 2017, invece il valore complessivo ha comunque tenuto, senza andare in territorio negativo. La dinamica è stata comunque molto differenziata. Il gap da Germania, Francia, Regno Unito si è ridotto soprattutto nei mercati che pesano di meno in termini di quote sul commercio mondiale. Al contrario, se si guarda in particolare alla competizione con i tedeschi, il gap è ancora ampio nei mercati più grandi. La spiegazione, secondo lo studio, è nelle caratteristiche delle nostre imprese, prevalentemente piccole e medie, più a loro agio in mercati non dominati dalle economie di scala. Purtroppo però questi mercati di nicchia rappresentano solo un tassello minuscolo delle esportazioni italiane: 3% nel 2017, contro il 27% dei mercati di media dimensione e il 70% di quelli più grandi. Un’ulteriore variabile è l’area geografica di sbocco. Si scopre che il gap di prezzo rispetto ai grandi concorrenti è più alto in Africa e America Latina, che valgono ognuno solo il 3% del nostro export, ma è più basso quando esportiamo verso l’Europa centrale e orientale (rispettivamente il 69 e 12% del nostro export). Infine, pesano e non poco anche i settori industriali. Le politiche di prezzo negli ultimi 15 anni si sono rafforzate soprattutto nel tessile abbigliamento, nell’arredamento ma anche nel food and beverage. Negli altri comparti invece le conclusioni variano in base al paese al quale ci confrontiamo. C’è una generale convergenza verso Francia e Gran Bretagna mentre con la Germania il recupero è più complicato, in particolar modo in comparti come l’elettronica, la chimica farmaceutica e l’automotive. L’evoluzione qualitativa delle nostre esportazioni si presenta insomma non ancora uniforme. E qui, secondo l’analisi del CsC, si innesta la necessità di un miglior coordinamento delle strategie d’innovazione lungo le filiere e di percorsi per far crescere anche tra le piccole e medie imprese il numero degli esportatori stabili.