Forse è per la sua storia, quelle radici che a un certo punto si sono divise tra cattolicesimo e comunismo. Forse è perché le due anime, al fondo mai state davvero divise, poi hanno smesso di scontrarsi e trovato il modo, invece, di incontrarsi. Fatto sta che se c’è – come c’è – un «modello Emilia», e che questo modello è alla base di uno sviluppo a ritmi tedeschi, almeno un po’ del segreto va cercato lì. Ci sono 65 imprese emiliane e romagnole, tra i 600 Champions dell’analisi L’Economia-ItalyPost. Fatturano 7,4 dei 44 miliardi complessivi di questa sorta di Superleague. Negli ultimi sei anni sono cresciute spesso più della media, hanno prodotto e reinvestito utili in proporzione, hanno trascinato la loro regione ai vertici dell’export e strappato al Piemonte il suo lato del Triangolo Industriale. Bene. Non uno, tra i Campioni già incontrati, ha stilato un elenco degli elementi-chiave del loro successo che non includesse uno stretto rapporto con il territorio, la sostenibilità, la responsabilità sociale che l’imprenditore si deve assumere.
Sono quelli che i tecnici chiamano «fattori immateriali» della crescita. Non tutti, nemmeno tra gli economisti, ci credono. E gli scettici non hanno sempre torto: è vero che, spesso,la formula responsabilità-etica-sostenibilità nasce e muore nelle stanze del marketing. Non accade così tra i Champions, però, e per rendersene conto è sufficiente visitarne le aziende. In particolare qui: in Emilia-Romagna, e nelle vicine Umbria e Marche, la formula di cui sopra è la norma. Poiché funziona, andrebbe probabilmente studiata un po’ più a fondo. Noi ne parleremo venerdì, vicino a Bologna, settima tappa del viaggio L’Economia ItalyPost nei territori dei «campioni». L’appuntamento è in una sede più che simbolica: la Faac è uno dei nostri Top 100 e il suo azionista è decisamente anomalo. La Curia bolognese. Avrebbe molto da insegnare. Per esempio a quelle famiglie-imprenditrici che, per crescere, avrebbero bisogno di manager, ma non si rassegnano a cedere un solo briciolo di controllo.