L’asse dell’auto italiana si è spostato. E’ accaduto dal punto di vista strategico.E inizia a intravvedersi nelle statistiche. La metamorfosi è in fase avanzata. Dalla Torino Company Town del Novecento – ormai segnata profondamente dalla perdita di funzioni nobili, nella Fca generatasi dal salvataggio di Fiat e dalla rinascita post fallimento di Chrysler – alla metropoli diffusa del Duemila in Emilia Romagna, da Parma a Faenza con Modena epicentro. L’automotive industry è un cetaceo che si muove – nell’universo dei numeri – con una dinamica lenta, ma la tendenza appare inesorabile.
I quindici nuovi modelli annunciati martedì a Maranello dalla Ferrari durante il Capital Market Day – con l’inevitabile intensificazione della produzione e dello stress benefico sulla rete della fornitura a chilometri zero – è soltanto uno degli elementi che, in un quadro reso vitale ma contradditorio dalla crisi innescatasi nel 2008 e nel rapporto ambivalente di Fca con il polo del lusso formato da Alfa Romeo e da Maserati, delinea comunque uno scenario evolutivo. E, soprattutto, muta gli equilibri nella fisiologia industriale italiana. «La decisione presa da Sergio Marchionne a fine 2011 di collocare a Modena il centro di sviluppo del prodotto di Alfa Romeo ha dato una prima spinta notevole», dice Andrea Bozzoli, amministratore delegato di Hpe Coxa, 30 milioni di euro di fatturato nella progettazione (280 addetti, 220 dei quali ingegneri).
Il meccanismo indotto da Fca avrebbe potuto essere più rilevante, se il progetto del polo del lusso non avesse subito negli anni una rimodulazione al ribasso e se non vi fosse stata l’onda lunga della crisi: a Modena la Maserati ha sperimentato un blocco produttivo durato – fra ferie e cassintegrazione – dal 18 luglio al 7 settembre, è tornata in cassintegrazione dal 17 al 21 settembre e sarà di nuovo in cassintegrazione dall’8 al 19 ottobre. «Al di là del depotenziamento del polo del lusso – riflette lo storico Giuseppe Berta – questo specifico modello di sviluppo territoriale e industriale, tecnologico e organizzativo ha dei caratteri di coralità che, nel Novecento italiano incardinato solo e soltanto sulla vecchia Fiat, non esistevano».
Dallara, Ferrari, Maserati, Alfa Romeo, Pagani, Lamborghini, Ducati, Toro Rosso, Haas. E, poi, Magneti Marelli e VM Motori. In un contesto italiano segnato dalle incognite sugli effetti sistemici della dismissione del diesel – la vera spada di Damocle sul futuro industriale degli stabilimenti di Fca in Italia, dopo l’abbandono delle produzioni con il marchio Fiat – la numerosità dei produttori costituisce il pilastro su cui si sorregge l’edificio. Che è ancora minore rispetto, per esempio, alla roccaforte piemontese. Ma che è in crescita, mentre la seconda è in via di rimodulazione. Basta osservare le statistiche sulla produzione dell’auto: nel 2000 il Piemonte pesava sulla produzione di autoveicoli italiana per il 60%; nel 2015 è sceso al 50 per cento; la dinamica della Emilia Romagna è opposta: se nel 2000 era al 7%, nel 2015 è salita all’11 per cento. E, peraltro, tutta composta da auto con margini elevati o elevatissimi, con un significativo potenziale di crescita. Secondo una elaborazione econometrica della Svimez, ogni 100 euro attivati a livello nazionale in maniera diretta e indiretta dal comparto, 10 euro sono riferibili – nel 2017 – all’Emilia Romagna; nel 2000 erano 7 euro. «Lo snodo fondamentale – nota l’economista della Svimez, Stefano Prezioso – è la ritrovata centralità, nei meccanismi dell’automotive industry internazionale, dei produttori. La fornitura è fondamentale. Ma la forza del nodo, nell’insieme dell’ordito, è cruciale. Il nodo è appunto il produttore. E, in Emilia Romagna, ce ne sono molti».
Dunque, nelle definizione delle nuove gerarchie dell’automotive industry nel nostro Paese conta che, qui, vi sia un numero significativo di produttori. Ma conta anche che la consistenza dell’ordito – la rete della fornitura – sia rilevante. L’Osservatorio sulla componentistica automotive italiana, curato dal Center for Automotive and Mobility Innovation (Cami) di Cà Foscari in collaborazione con l’Anfia e la Camera di Commercio di Torino, ha censito in Emilia Romagna 219 imprese con oltre 16mila addetti. «Rappresentano circa un decimo della componentistica italiana», nota Francesco Zirpoli, direttore del Cami. Il 7% di queste aziende opera nell’engineering e nel design, il 4% nei sistemi e nei moduli, il 15% nel motorsport. Sono tutte specializzazioni sofisticate.
«Di sofisticato – racconta Andrea Pontremoli, amministratore delegato di Dallara, che con la progettazione e con la costruzione di vetture da corsa fattura 105 milioni di euro e ha 670 addetti – c’è anche il metodo di lavoro sul capitale umano. Con la Motorvehicle University of Emilia Romagna abbiamo unito le principali imprese di questo territorio, le università e la Regione. Non è forma. E’ sostanza». E, Pontremoli, lo dice appena rientrato dalla California, dove è stato a Stanford e a Berkeley: «Stiamo seminando, l’idea è stringere accordi perché gli studenti americani vengano da noi a fare i due anni di laurea magistrale, l’equivalente di un loro master».
Seminando seminando, a condizioni storiche mutate, in Italia il cuore e il cervello dell’automotive industry si stanno ogni giorno di più spostando fra l’Appenino emiliano e l’Adriatico.