A due delle dieci vicepresidenze della sua nuova squadra, Carlo Bonomi, neo presidente di Confindustria, ha designato imprenditrici venete di elevato profilo: il «fattore femminile», per dirla con le parole di Enrico Carraro, presidente degli industriali regionali. Barbara Beltrame, vicepresidente di Confindustria Vicenza, ha ottenuto la delega all’Internazionalizzazione; Maria Cristina Piovesana, presidente di Assindustria Veneto-centro, quella all’Ambiente e sostenibilità. E l’Emilia-Romagna? Anche in questo caso, due designazioni di rilievo con deleghe strategiche: Maurizio Marchesini (Filiere e medie imprese) ed Emanuele Orsini (Credito, finanza, fisco). Un successo, dunque, per il «nuovo Triangolo industriale».
E in particolare per i suoi due nuovi lati – quello veneto e quello emiliano-romagnolo – che, in questi primi due decenni del XXI secolo, si sono affiancati a quello storico (Lombardia), che oggi esprime il presidente? Porre la questione in termini di successo o insuccesso è riduttivo, giacché la questione essenziale è un’altra: che cosa può portare il nuovo Triangolo industriale alla crescita del Paese? In tempi normali, fino a tre-quattro mesi fa, si sarebbe trattato di una sfida impegnativa e, se vogliamo, entusiasmante. Oggi, con lo tsunami che sta investendo la nostra società e la nostra economia, è una sfida da far tremare i polsi. Gli imprenditori, parte essenziale della classe dirigente del Paese, ne sono pienamente consapevoli.
L’agenda delle cose da fare è, nell’Italia al tempo del Covid-19, molto lunga e va da problemi urgentissimi (pensiamo alla liquidità da far davvero arrivare alle imprese) a problemi più strutturali (pensiamo ai crescenti «dualismi» nell’industria italiana fra settori/imprese di successo e settori/imprese che non ce la fanno, oltre allo storico dualismo Nord-Sud). Ecco allora che ritorna la questione essenziale: che cosa significa, qui e ora, il nuovo Triangolo industriale nella vita del Paese? Ampiamente noti sono il suo contributo al Pil italiano (40%), così come il suo eccezionale contributo alle esportazioni totali (oltre il 50%), numeri che parlano da soli. Ma per gettare luce sul cambiamento strutturale della manifattura del Paese, è necessario compiere un passo in più. L’emergenza sanitaria che da metà febbraio il Paese sta vivendo ha acceso un faro sull’industria biomedicale, che produce sia dispositivi di protezione individuale sia apparecchiature per la cura di gravi patologie quali, per restare al coronavirus, quelle respiratorie. Oggi il biomedicale è considerato un patrimonio nazionale, anche in virtù del fatto che, insieme alla farmaceutica, colloca l’industria italiana lungo la frontiera del progresso tecnologico nelle «scienze della vita». Dati elaboratori della Direzione Studi e Ricerche di Intesa San Paolo (Isp) ci dicono che il settore biomedicale italiano nel 2019 ha realizzato 7,8 miliardi di euro di esportazioni. Ebbene, 2,4 miliardi (il 30% abbondante) provengono dai cinque poli biomedicali censiti dal «Monitor» di Isp di cui ben quattro sono nel Triangolo: Padova, Mirandola, Bologna, Milano (più Firenze). È un (positivo) segno dei tempi che il presidente Bonomi abbia alcune delle sue più significative attività imprenditoriali proprio nel biomedicale mirandolese.
Ora, in tutti questi distretti industriali ad alta tecnologia, concentrati su un dato territorio, vi è una vera e propria osmosi fra la ricerca medico-scientifica e la sfera della progettazione-produzione; vi è un’ampia circolazione dei talenti e, quindi, della conoscenza. Beninteso, il biomedicale è importantissimo ma la sfida per la manifattura italiana è, oggi più di ieri, a 360 gradi.
In un recente articolo per la rivista «l’Industria» (N. 4/2019), ho passato in rassegna la Politica industriale in prospettiva europea. Bruxelles da molti anni ha riaperto questa pagina, enfatizzando la necessità di investire nelle nuove tecnologie abilitanti e nella green economy, senza dimenticare i classici settori dell’industria europea. In tale quadro, la Germania già lo scorso anno ha lanciato una «National Industrial Strategy 2030». Di più: Germania e Francia, sempre nel febbraio 2019, hanno firmato un «Manifesto» per legare sempre più il piano nazionale e il piano comunitario della politica industriale. Ma l’Italia non c’era. Ci sarà in un prossimo futuro? C’è da augurarselo, e grande è ora la responsabilità delle élite imprenditoriali del nuovo Triangolo industriale.