«I minibond? O sono uno strumento illegale, o è nuovo debito». Non avrebbe voluto chiudere la sua esperienza così, ma ormai è rassegnato. Così, quando uno dei presenti alza il braccio per fargli la domanda canonica sull’Italia e i problemi con l’Unione, Mario Draghi fa un respiro lungo e risponde. «Non credo che verrà chiesta una discesa rapida del debito. Sappiamo tutti che è impossibile. Sarà un piano di medio termine che tuttavia dev’essere credibile, e la credibilità si misura da come è pianificato, e dalle azioni che seguono». A cinque mesi dalla fine del mandato alla Banca centrale europea, il governatore italiano ha dato l’ultimo colpo d’ala da colomba. La decisione annunciata pochi minuti prima di allungare la politica dei tassi zero per sei mesi – «almeno fino a metà 2020» – è un aiuto al suo Paese e a sostegno della linea prudente di Sergio Mattarella e Giuseppe Conte contro Matteo Salvini e Luigi Di Maio. Con un post scriptum: basta con le proposte incendiarie. L’idea dei minibot, il cavallo di battaglia lanciato da uno degli ideologhi leghisti, Claudio Borghi, è diventato argomento di dibattito politico, al punto da finire in una mozione votata in Parlamento perfino dalle opposizioni. Draghi sottolinea che quello sarebbe il primo mattone per l’uscita dell’Italia dalla moneta unica. Lo ammetteva lo stesso Borghi un paio d’anni fa in un’intervista rilanciata ieri da La7.
Vilnius, Lituania, ieri. Il consiglio dei diciannove governatori dell’area euro è riunito mentre esce una nota di Moody’s dedicata all’Italia. “Più che l’Europa a fare la differenza con l’Italia potrebbero essere i mercati”, scrive la seconda agenzia di rating mondiale. Il giudizio di credito del debito italiano è a pochissimo dal diventare “spazzatura”. Per evitare il peggio all’intera zona euro, i banchieri centrali decidono misure che condizioneranno almeno per un anno il lavoro di colui che arriverà dopo Draghi. Sarà il tedesco Jens Weidmann? O forse il finlandese Olli Rehn? La gara è ancora apertissima. Nel dubbio il governatore italiano mette le mani avanti e spinge i colleghi a prendere tempo. La crescita in Europa stenta (rispetto alle ultime stime c’è un miglioramento per quest’anno di appena un decimale, da +1,1 a +1,2), l’inflazione resta abbondantemente sotto il 2 per cento e dunque non è ancora necessario stringere i bulloni della politica monetaria.
Sullo sfondo della cristalleria – tutti lo sanno ma nessuno lo può dire – c’è il solito elefante. Per ironia della sorte Draghi è costretto a chiudere il mandato in condizioni simili a quelle in cui lo dovette iniziare. Si insediò nell’autunno del 2011 nel pieno di una bufera finanziaria che aveva come epicentro l’Italia, fa gli scatoloni mentre il mondo si interroga sulle intenzioni del governo giallo-verde.
Quel che Draghi poteva fare per il suo Paese l’ha fatto. La terza asta di liquidità a favore delle banche – lanciata sempre ieri – va anch’essa in quella direzione. Gli istituti che presteranno denaro all’economia oltre una certa soglia potranno attingere a fondi aggiuntivi ad un tasso fra lo 0,1 e lo 0,5 per cento. Draghi deve smentire pubblicamente che questo servirà a evitare il peggio agli istituti con i bilanci appesantiti da titoli di Stato, ma la verità è che sì, l’asta serve anche a questo. Con lo spread ormai stabilmente vicino a trecento punti base, molte banche rischiano di pagare caro gli azzardi del governo. Entro fine giugno si dovrebbe conoscere il nome del successore di Draghi. Chiunque sarà, non è detto faccia come lui ogni cosa per preservare l’unita della moneta unica. “Non voglio nemmeno pensare che accada”, sibila. Eppure potrebbe accadere. E non è detto ci debba essere un regista di quella rottura. Basterebbe che qualcuno non calcolasse fino in fondo le conseguenze delle proprie azioni.