Uno degli aspetti che hanno incoraggiato gli uomini al vertice della Banca centrale europea riguarda qualcosa che non è successo. Un silenzio dopo un evento che poteva fare rumore. Giovedì scorso Mario Draghi, il presidente della Bce, ha annunciato la fine di un’epoca: dopo quasi quattro anni e 2.500 miliardi di euro spesi in interventi, da gennaio la Bce smetterà di creare denaro per comprare titoli di Stato e di grandi aziende. Per l’Italia sarà un cambio di paradigma dopo che la Bce ha assicurato domanda per 250 miliardi di euro del proprio debito. Ma la fine annunciata degli acquisti a Roma è passato nel silenzio, rassicurando i vertici della Bce: una campagna di polemiche fra le forze politiche più critiche verso l’Europa era fra le ipotesi messe in conto.
Invece per ora l’uscita dal “quantitative easing” — la creazione di nuova moneta da iniettare nell’economia — procede senza intoppi. I rendimenti dei titoli di Stato italiani a dieci anni, oggi un anello debole della catena, sono addirittura scesi di 26 punti (0,26%) dall’annuncio di sette giorni fa. Lo si deve in parte a parole come quelle che Draghi ha usato ieri a Sintra, al Forum annuale della Bce: «La politica monetaria dovrà restare paziente, persistente e prudente». Significa che un primo aumento dei tassi non è previsto prima di almeno altri quindici mesi.
La circospezione di Draghi però non è solo data dal tentativo di evitare reazioni, perché serpeggiano anche preoccupazioni reali per il passo della ripresa. «L’incertezza permea le prospettive — ha detto ieri il presidente della Bce —. I dati più recenti sollevano interrogativi sulla tenuta delle previsioni di crescita». Questa è stata senz’altro la parte più nuova dell’analisi di Draghi ieri a Sintra, dove sono raccolti i principali banchieri centrali del mondo: il presidente della Federal Reserve Jerome Powell, quello della Bundesbank Jens Weidmann, il governatore giapponese Haruhiko Kuroda, oltre al francese François Villeroy de Galhau e all’italiano Ignazio Visco. Draghi in questo momento non è rassicurato dal passo della ripresa: dall’inizio dell’anno le previsioni di crescita dello staff Bce sono già state riviste al ribasso dello 0,3%, mentre da Parigi l’istituto statistico Insee vede un aumento del prodotto non oltre l’1,7% dopo il 2,3% della Francia l’anno scorso. La frenata oggi è evidente e le implicazioni si vedranno presto anche in Italia.
Lo stesso Draghi ieri ha definito questa ripresa europea «breve come durata e piccola come dimensioni»: negli ultimi quarant’anni di solito le fasi di espansione in Europa sono durate poco meno di otto anni dal punto più basso al picco e l’economia si è espansa del 21%; questa volta invece è diverso, ha fatto notare il presidente della Bce, perché la ripresa almeno in questa fase sta rallentando dopo soli cinque anni e il reddito è salito appena del 10%. Non è un caso se alle sue parole l’euro è scivolato dello 0,8% a 1,15 dollari. Pesano preoccupazioni che non riguardano solo l’Europa: il protezionismo della Casa Bianca di Donald Trump; l’aumento del prezzo del petrolio, con il West Texas Intermediate passato dai 30 dollari del 2016 ai 64 di ieri per le tensioni sull’Iran; e quella che Draghi chiama «possibilità alta volatilità persistente sui mercati», senza citare l’Italia o Paesi emergenti come Turchia o Brasile.
Ma il presidente della Bce intravede dietro il rallentamento di questi anche cause più vicine: «La mancanza di investimenti più forti, il cui contributo alla crescita nell’area euro in questa fase è «approssimativamente zero». In sostanza l’espansione europea si è nutrita del fatto che otto milioni di occupati in più sono stati messi al lavoro sugli impianti esistenti, ma ora questo non basta più a sostenerla.
Anche qui Draghi non fa nomi, naturalmente. Ma dal 2007 gli investimenti in zona euro sono scesi del 3% del prodotto e sarebbero di 300 miliardi all’anno in più se solo fossero ai livelli di allora, in percentuale del Pil: una somma simile al surplus dell’area sul resto del mondo. Anche in Germania gli investimenti sono bloccati al 20% del Pil, esattamente dov’erano sul fondo della Grande recessione, mentre il Paese genera un avanzo da 250 miliardi di euro l’anno sull’economia mondiale. Oggi anche queste contraddizioni vengono al pettine della ripresa europea. E stavolta non può essere Draghi a risolverle.