È una strada lunga, stretta e non è facile immaginare cosa nasconda dietro la prossima curva. Prima che qualcuno si prenda la responsabilità di intraprenderlo, il percorso che fra sei settimane dovrebbe portare l’Italia alla legge di Bilancio sembra già l’opposto di quel che è diventata la politica in un’estate di rivolgimenti. Quest’ultima ha girato su se stessa, mutevole e sovrabbondante di parole, mentre la manovra finanziaria continua in silenzio a sovrastare i partiti come una montagna: scalabile solo da chi saprà tenere il passo in salita.
Il Movimento 5 Stelle e il Partito democratico ne hanno parlato in questi giorni, benché per ora non un solo numero sia stato messo nero su bianco. La loro intesa al momento si limita ad alcuni punti di principio e nessuno riguarda la parte ripida del percorso. Le due forze concordano nel cercare di ridurre il cosiddetto cuneo fiscale (la differenza fra il costo del lavoro per il datore e quanto intasca il dipendente) e nel farlo a favore di quest’ultimo: lo sgravio dovrebbe andare tutto al lavoratore, non all’impresa. Gli stati maggiori di Pd e M5S concorrono anche nel sostenere misure più decise sugli investimenti e nel mantenere «quota 100», che pure può costare quasi 20 miliardi in tre anni (ma l’ex premier Matteo Renzi vorrebbe cancellare le pensioni anticipate volute dalla Lega). Poi c’è la parte in salita della legge di Stabilità. Su questa a quanto pare le due forze non si sono ancora confrontate, ma conoscono il punto di partenza: con l’attuale costo in interessi del debito e un utilizzo parziale di «quota 100» e «reddito di cittadinanza», il deficit è diretto all’1,6% del Prodotto lordo (Pil) nel 2020. Sarebbe un netto calo dal circa 2% di quest’anno. Ovviamente a patto che non ci siano altri interventi e dunque da gennaio aumentino Iva e accise per 23 miliardi di euro. Poiché però M5S e Pd hanno promesso di non far salire le imposte indirette su Iva e accise (lo stesso dicono tutti i partiti in Parlamento) il deficit in realtà è diretto in area 3% del Pil. Troppo per riuscire a evitare una procedura europea sui conti e una probabile sanzione dei mercati.
Giovanni Tria ha già delineato con la sua squadra il profilo di una manovra per correggere la rotta. Il ministro dell’Economia uscente si prepara a lasciare il suo schema in eredità al prossimo governo. Ma quel dispositivo, visto nei dettagli, fa capire perché il leader della Lega Matteo Salvini abbia deciso di aprire la crisi prima di affrontare la sessione di bilancio. Solo per mantenere il deficit attorno al 2% del Pil Tria ha dovuto pensare a una stretta da 15 miliardi di euro. Circa nove miliardi verrebbero maggiori entrate: qualcosa dalla lotta all’evasione e dal taglio di sussidi nocivi per l’ambiente, molto riduzioni lineari — poco ma per tutti — su un portafoglio da 35 miliardi di deduzioni e detrazioni di cui godono decine di milioni di italiani (gli sgravi su carburante per autotrasporto o agricoltura sarebbero limati meno). Altri sei miliardi verrebbero invece da tagli di spesa: ai ministeri, ma anche alla sanità e agli enti locali.
Così un’economia paralizzata da oltre un anno dovrebbe subire una stretta il doppio più pesante di quanto mai fatto negli anni di ripresa 2014-2018, solo per impedire al deficit di salire. È l’eredità dei bonus degli anni di Renzi e dell’anno di Lega e M5S, coperta fino a ieri dalla promessa incredibile di far salire l’Iva. Del resto un intervento del genere non basterebbe neanche per avviare alcunché di quanto vorrebbero M5S o Pd: né tagli al cuneo, né investimenti, né impegno su scuola o sanità. Sarebbe una manovra avvertita da milioni di italiani come un aumento netto di tasse (in realtà, una riduzione di sgravi) per tenere il Paese fermo. Anche per questo serpeggia già fra Pd e M5S la tentazione di seguire un’altra strada: negoziare con Bruxelles un netto aumento del deficit, anche oltre la soglia del 2,4% del Pil su cui l’anno scorso si giocò la partita (perso) con la Commissione Ue. La frenata in Europa, la minaccia della Brexit e la guerra commerciale fra Stati Uniti e Cina sono argomenti che l’Italia può usare per evitare giri di vite troppo forti.
Ursula von der Leyen, futura presidente della Commissione, ha già fatto capire però qual è la via maestra: fatti concreti contro l’evasione o per una giustizia in tempi certi e rapidi. Se l’Italia migliorasse sui quei fronti, di colpo i decimali di deficit peserebbero meno anche a Bruxelles. Ma è davvero un grande «se».