I Cahiers de doléances presentati a Pechino dalla delegazione americana alla controparte cinese rischiano di minare sul nascere le potenzialità del Comprehensive dialogue tra Usa e Cina, ovvero la nuova veste del massimo strumento di dialogo economico bilaterale tra le due superpotenze.
Nella due giorni di incontri che si è conclusa ieri il “dream team” guidato dal segretario di Stato al Tesoro Steve Mnuchin ha sottoposto al viceministro Liu He, capo delegazione cinese, una sfilza di richieste, tra le quali svetta l’impegno a raddoppiare il taglio unilaterale al deficit galoppante (+16%, pari a 91,1 miliardi di dollari nel primo trimestre 2018) portandolo a meno 200 miliardi entro il 2020.
Nel mirino anche Made in China 2025, la strategia di lungo periodo di Pechino per promuovere lo sviluppo in 10 settori tra cui l’industria aerospaziale, la robotica e le automobili elettriche, accusata di essere il cavallo di Troia per imporre trasferimenti di tecnologia a danno delle imprese straniere nonchè la famigerata negative list che la Cina fatica a mandare in soffitta, ovvero la lista delle attività off limits per gli investitori stranieri (ogni volta l’elenco si assottiglia ma la lista in sè è dura a morire).
«Le differenze restano grandi – ha ammesso, laconicamente, l’agenzia statale Nuova Cina. Le due parti, tuttavia, si sono impegnate a risolvere le loro dispute commerciali attraverso il dialogo». Nel lessico della nomenklatura cinese è un modo elegante di glissare sulla radice del problema, il dialogo è stato un fallimento. L’unica cosa positiva, in fin dei conti, è che il Comprehensive dialogue sia ripartito dopo mesi di stallo.
Si è chiuso con un risultato deludente da ambo le parti un round che ha visto le delegazioni girare intorno ai dossier messi a punto dagli americani, per giunta zavorrati da ulteriori richieste. Non ci sono state controproposte definite da parte cinese perchè, molto probabilmente, Pechino ha un’impostazione diversa da quella americana, e il criterio delle concessioni imposte a colpi di diktat non trova alcuna sponda a Pechino. Anzi. In questo caso i cinesi sono certi di aver messo sul piatto tutto il possibile, dall’eliminazione del tetto alle joint venture in settori nevralgici alla difesa della proprietà intellettuale ai tagli dei dazi all’import di auto, ad esempio.
Certo, il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha elogiato il suo rapporto con il presidente cinese Xi Jinping e ha twittato, ottimista, alla partenza della delegazione americana: «Faremo accordi incredibili». Ma, questa volta, la realtà è nuda: niente accordi “finti” come la scia di Memorandum of understanding lasciata dalla visita di Stato di Trump a Pechino dello scorso novembre, solo consultazioni «schiette, efficienti e costruttive» come puntualizza sempre l’agenzia Nuova Cina, ma niente dettagli nè conferenze stampa, nessuna traccia di sintesi tra le due posizioni.
Un accordo per cambiare alla radice le politiche economiche della Cina, del resto, è stato considerato anche dagli Usa altamente improbabile, invertire il corso della storia è impossibile, e se il segretario di Stato Steve Mnuchin si è detto «eccitato» all’idea di essere a Pechino per la prima volta, la scarsa esperienza sul terreno cinese di gran parte del dream team secondo alcuni addetti ai lavori ha pesato molto. L’aggressività di personalità del calibro di Peter Navarro, consulente per la Cina del presidente, può rivelarsi un boomerang, solo Wilbur Ross segretario al commercio era già stato in Cina con Rex Tillerson ex segretario di Stato. Forse urgono ripetizioni di etichetta negoziale cinese.