È la Terza Repubblica ma somiglia tanto alla Prima, se non fosse che i protagonisti della nuova stagione politica appaiono impacciati nell’imbastire mediazioni. Intanto perché non sembrano attrezzati. Eppoi perché — per mostrarsi impermeabili agli inciuci in campagna elettorale — hanno disseminato così tanti cavalli di frisia da non sapere ora come aggirarli. E siccome per far partire la legislatura bisogna necessariamente trattare, si notano le difficolta nelle relazioni. I contatti tra Cinque Stelle e Carroccio sulle presidenze di Camera e Senato rappresentano l’esempio più lampante. Perché i contatti ci sono stati dopo che il vicesegretario della Lega, Giorgetti, ha accennato alla spartizione dei due più importanti scranni parlamentari «tra le forze vincitrici». La sortita ha insospettito il fronte berlusconiano, sebbene Salvini abbia dato garanzie all’alleato.
E per quanto Di Maio continui a ripetere che «gli altri dovranno venire a parlare con noi», in realtà sono stati proprio i suoi messaggeri a parlare con «gli altri». C’è un motivo se il Movimento è interessato all’accordo con il capo dei leghisti: in base ai differenti regolamenti delle due Camere, mentre a Palazzo Madama — superato l’alto barrage delle prime votazioni — il centrodestra avrebbe i numeri per eleggersi un presidente, a Montecitorio — dove serve invece la maggioranza dell’Assemblea — M5S avrebbe bisogno del sostegno altrui.
Inizialmente i grillini avevano impostato i loro piani puntando ad avvicinare il Pd, con un’intesa sulle cariche istituzionali che fosse propedeutica a un accordo di sistema. È la manovra di Renzi che li ha costretti a un cambio di linea: senza i democratici è impossibile provare a sovvertire i numeri del Senato, confidando nel «soccorso rosso» all’ombra dei voti a scrutinio segreto. E il leader dimissionario ha trasformato Palazzo Madama nella sua roccaforte, con un pacchetto di fedelissimi: «Al momento delle candidature — come dice Lotti — abbiamo fatto a tutti l’analisi del sangue». Il muro issato dal «giglio magico» ha fatto tirare un sospiro di sollievo a Berlusconi.
Sì, perché tutto si tiene. C’è (anche) Berlusconi, con il suo modesto risultato elettorale, tra le motivazioni che hanno spinto Renzi all’arrocco. Come raccontano amici di lunga data del Cavaliere, se Forza Italia avesse mantenuto il primato nel centrodestra e avesse indicato Tajani per Palazzo Chigi, alla fine l’intesa con il Pd si sarebbe potuta trovare sul presidente dell’Europarlamento. Ma con Salvini candidato premier non ci sono margini. E a nulla valgono gli appelli del segretario leghista a una indistinta «sinistra» per ottenere un appoggio. Le urne hanno mandato in fumo l’unica strategia che era stata precostituita, per quanto in fase embrionale. Adesso è buio dappertutto, e tutti si preparano a una lunga marcia, con la consapevolezza che nulla può darsi per scontato.
Ce n’è la prova nei conciliabili avvenuti a margine del Consiglio dei ministri di ieri, con i rappresentanti del governo che discutevano sulla situazione molto complicata e sulla possibilità che i parlamentari neoeletti diventino «figli di una legislatura minore». Una legislatura breve, insomma, con la prospettiva — da non escludere — di un ritorno alle urne entro l’autunno: in ottobre. Anche perché i segnali che arrivano ai ministri dal Colle sembrano inequivocabili: Mattarella non ha intenzione di tramutarsi nel demiurgo di un esecutivo purchessia, sarà pronto ad assecondare gli sforzi per dare vita a un governo ma lascerà alle forze politiche la responsabilità delle loro scelte.
E con il Pd renziano sull’Aventino, ogni iniziativa è destinata a fallire senza un’intesa tra i due vincitori. Che corrono il rischio di finire imbrigliati nelle manovre di Palazzo. Perciò Salvini, come Di Maio, si mostra attendista. Certo è impaziente di sentire il proprio nome pronunciato da tutto il centrodestra durante le consultazioni sul Colle, ma oscilla tra il desiderio di farsi dare l’incarico — così da mettere una pietra tombale sul berlusconismo — e il timore di ottenere solo un preincarico, con il rischio di fare «la fine di Bersani». Allo stesso tempo, se rimanesse coperto e il capo dello Stato dovesse affidare un mandato esplorativo a una carica istituzionale, il suo nome verrebbe comunque superato dagli eventi.
Al contrario di Berlusconi, il capo della Lega aveva anche sperato che M5S si accordasse con il Pd, per garantirsi il ruolo di capo dell’opposizione e prepararsi alla sfida successiva per Palazzo Chigi dopo aver egemonizzato il centrodestra. Niente da fare. A Salvini, come a Di Maio, serve impostare un’altra strategia che passa per il dialogo tra i due quantomeno sulle presidenze delle Camere. I primi timidi contatti sono la dimostrazione che il tentativo è in atto. Con la reciproca preoccupazione di non mettere la testa fuori dalla trincea. Non si era mai visto un dopo elezioni in cui nessuno dei vincitori reclama per sé la guida del governo.