Il banco di prova della strategia del ministro Luigi Di Maio contro quelle che chiama “delocalizzazioni selvagge” si chiama Bekaert. Si tratta di una multinazionale belga che produce lo steel cord, la cordicella metallica di rinforzo dei pneumatici e dà lavoro a più di 300 addetti a Figline Valdarno. Lo stabilimento toscano è solo uno degli impianti che Bekaert ha in Europa e in questi giorni i vertici aziendali hanno deciso di chiudere Figline, spostare le produzioni in Romania e licenziare gli operai. Tutto il paese è sceso in piazza ed è già partito il tavolo di crisi al ministero. Non avendo però la Bekaert mai preso contributi pubblici viene a cadere lo schema-chiave della strategia del ministro sancita dal Decreto Dignità. Non ci sono multe salate da erogare e rappresaglie da mettere in atto e così si gira a vuoto. E infatti Di Maio di fronte all’arroganza belga non ha potuto far altro che dichiarare: «Questo governo si premurerà di andare in giro per il mondo a raccontare la poca attendibilità di questa multinazionale, saremo il loro primo sponsor negativo». Che un governo – a prescindere dal colore politico – debba battersi contro le delocalizzazioni è una scelta giusta, il problema però è che bisogna avere le idee chiare. Il caso dell’Embraco di Torino è ancora lì a dimostrare come sia difficile spuntarla in queste situazioni.
L’iniziativa della Bekaert ha colto di sorpresa un po’ tutti perché solo sei mesi fa l’azienda aveva illustrato i suoi piani di sviluppo ma qualcosa deve essere cambiato o nei rapporti con il principale cliente (la Pirelli) o nelle strategie globali del gruppo. Che fare? I sindacati nazionali stanno seguendo la vertenza con attenzione e sia Annamaria Furlan sia Marco Bentivogli hanno fatto la voce grossa e invocato l’intervento del ministro. Che nei giorni scorsi un errore però lo ha fatto: intervistato dalla Stampa ha irriso il fondo di 200 milioni contro le delocalizzazioni deciso dal suo predecessore Carlo Calenda per contrastare l’uscita dell’Embraco e invece con tutta probabilità dovrà farvi ricorso. Se non si possono erogare multe come si fa a convincere una multinazionale a venire a Canossa? La strada che i sindacati vedono ora è di reindustrializzare l’impianto di Figline (i belgi non vogliono che subentri un concorrente come l’indiana Jindal) ma come il precedente degli elettrodomestici torinesi dimostra tutto passa per l’azione di Invitalia e per la captatio di nuove imprese disposte a farsi carico dell’occupazione.
Le delocalizzazioni non si ripetono così frequentemente e anzi, almeno da parte delle imprese italiane, non è più tempo di andare produrre magliette e scarpe all’Est ma in attesa di altre prove di forza Di Maio dovrà rivedere la sua impostazione di politica industriale “rovesciata” e “punitiva”. Non siamo gli States di Trump e di conseguenza Italy first rischia di essere uno slogan vuoto. Bisogna partire dall’attrazione degli investimenti – come era successo per il Suv della Lamborghini-Audi che si farà in Emilia e fu strappato alla Slovacchia – e magari dal reshoring. Sono svariati i casi di aziende che vorrebbero riportare in patria le lavorazioni a più alto valore perché qui, tutto sommato, si trovano i tecnici migliori e il manufacturing più avanzato ma per avere speranza di successo occorre presentarsi come un Paese aperto.