La pratica dello sblocca-cantieri è ancora da chiudere, ma nell’agenda del governo già si affacciano i giorni decisivi per Def e pacchetto crescita. Che nella strategia del ministro dell’Economia Tria sono due facce della stessa medaglia. Ma la linea del titolare dei conti ha acceso un confronto serrato con gli azionisti politici della maggioranza, che nella geografia di tensioni ad assetto variabile in questo caso si scontra soprattutto con i Cinque Stelle. Due i temi: il Dl crescita, atteso in cdm fra sette giorni al ritorno di Tria dal nuovo viaggio in Cina, e il peso da dare al Def. Ultraleggero, come chiede la politica, o più articolato, come preferirebbe una parte del governo.
Perché tra economia in frenata, europee in arrivo e maxi-clausole Iva, i rischi Ue di manovra-bis e la sfida di partenza da almeno 30 miliardi sui conti del prossimo anno trasformano la politica economica in un terreno minato sul piano elettorale. In questo quadro, mettersi a discettare di cura fiscale e tagli necessari a far rientrare i saldi nei binari non aiuta; anzi va in senso contrario alle promesse di tagli alle tasse che sono tornate a dominare il dibattito. E un rinvio dei dossier sarebbe salutare. Ma ci sono da rispettare gli obblighi Ue, che per fine aprile impongono l’invio del «programma di stabilità». E soprattutto non bisogna allarmare i mercati mettendo a rischio il mini-recupero sullo spread che ormai da quasi un mese si tiene più o meno decisamente sotto quota 260 (ieri ha chiuso a 240.7). E scrivere un Def che registra gli effetti del Pil in frenata su deficit e debito senza indicare contromisure non è il messaggio più rassicurante.
Di qui la spinta di Tria alle misure per la crescita, con il capitolo di proposte pro-investimenti privati (Ires, super-ammortamento, Patent Box, ricerca e sviluppo e così via) e pubblici (per esempio i 450 milioni ai Comuni) costruito soprattutto insieme alla parte leghista della squadra composta da Garavaglia e Bitonci. In parallelo, i Cinque Stelle si sono concentrati di più sulle misure Mise, dagli incentivi per la formazione agli sconti fiscali per la digitalizzazione.
Per capire il possibile punto di caduta bisogna allora cambiare il “precedente”. Non il Def 2018, che evitò programmi perché il governo Gentiloni era in carica solo per gli affari correnti. Ma il Def 2017, quando le differenze fra tendenziale e programmatico furono prodotte dalla manovrina da 3,5 miliardi approvata in contemporanea al Documento.
Il Dl crescita, in pratica, nell’ottica italiana sostituirebbe di fatto la manovra-bis. Sempre che questa linea trovi ascolto a Bruxelles, dove il vicepresidente della commissione Dombrovskis ha avvertito Roma della necessità di «ripensare gli obiettivi di bilancio». L’ipotesi italiana, invece, è di affidare il lavoro “correttivo” alle sole clausole già inserite in legge di bilancio ma tenute fuori dai saldi, dai due miliardi di spesa corrente congelata ai 950 milioni del piano di dismissioni. Ma in gioco potrebbero rientrare anche gli eventuali risparmi dal fondo per il reddito di cittadinanza, che secondo stime tecniche non ufficiali potrebbero superare i 500 milioni. Sull’Iva ci si potrà limitare a un impegno generico (qui i precedenti non mancano); rimandando all’autunno il confronto fra chi come Tria è disponibile a rimodulare le aliquote e chi in Lega e M5S non ne vuole sentir parlare. Il capitolo clausole, 23,1 miliardi nel 2020 e 28,8 nel 2021, resta il più spinoso. Ma andrà incrociato con le ipotesi di riforma Irpef che dividono Lega e M5S. Per ora non c’è «alcuna stima ufficiale sull’impatto di un’estensione della flat tax», ha ribadito ieri Tria al Senato, perché per le proposte concrete bisognerà aspettare la legge di bilancio. Al netto della riforma Irpef, per ora si potrebbero ipotizzare dai 3 ai 5 miliardi dalla revisione delle tax expenditures. E fissare un obiettivo da 2-3 miliardi da spending review. Sempre che vinca l’idea di addentrarsi nei programmi.