Quello che si concentra sul cosiddetto «tesoretto» del reddito di cittadinanza, in realtà una minore spesa in deficit rispetto al previsto, è solo l’ultimo episodio della serie nella battaglia di parole che i due leader di maggioranza ingaggiano periodicamente con il ministro dell’Economia Tria. Tria che ieri è stato messo sotto attacco anche dall’opposizione perché è tornato a criticare il bonus da 80 euro, «tecnicamente sbagliato», e a rievocare il progetto già studiato al Mef lo scorso anno per inglobarlo nella riforma Irpef trasformandolo da spesa pubblica a sconto fiscale.
Ieri, insomma, per il titolare dei conti è stata un’altra giornata di bufera. Partita quando, nell’intervista mattutina ad Agorà su RaiTre, ha detto che le coperture del decreto sulla famiglia promosso dai Cinque Stelle «non sono ancora state individuate», per cui il decreto non è stato approvato. «Decide la politica, non i tecnici», ha tuonato il leader M5S Luigi Di Maio. «Dal ministro Tria ci aspettiamo soluzioni, non ostacoli», gli ha fatto eco il sottosegretario agli Esteri Manlio Di Stefano, anche lui M5S, invitando il ministro a «non nascondersi dietro ai numeri».
Ieri è stato il turno dei Cinque Stelle, altre volte è toccato alla Lega. Ma quello che va in scena periodicamente, e con intensità crescente man mano che ci si avvicina al voto, non è però un dibattito fra le opinioni dei partiti e quelle di Tria. Perché spesso il contrasto è fra le richieste dei due vicepremier e i documenti di finanza pubblica appena votati dallo stesso governo.
Sul riutilizzo dei “risparmi” dal reddito di cittadinanza, per esempio, è la manovra (comma 257 della legge 145/2018) a spiegare che a misurare le «eventuali economie» su reddito di cittadinanza o quota 100 è un «accertamento quadrimestrale», in base al quale i risparmi possono alimentare compensazioni tra i due fondi oppure ritornare al fondo di appartenenza. E sono le regole di finanza pubblica ad aggiungere che un risparmio eventuale realizzato in un anno non può alimentare spesa aggiuntiva l’anno dopo senza incidere sui livelli di deficit appena decisi nel Def.
E gli ostacoli più alti sulla via della traduzione pratica delle parole d’ordine utilizzate da questa campagna elettorale quando si è occupata di politica economica si incontrano proprio nel Def, firmato da Tria ma ovviamente approvato dal consiglio dei ministri, e nella risoluzione di maggioranza con cui il Parlamento ha dato il via libera al Documento. Sull’Iva, che per Salvini «non aumenterà mai finché sono io al governo» ed è da escludere a priori anche per Di Maio, il Def si limita a «confermare la legislazione vigente in materia fiscale» (cioè gli aumenti da 23,1 miliardi in calendario dal 1° gennaio 2020). La conferma è prevista «nell’attesa di definire le misure alternative di copertura»: ma per una partita che vale l’1,26% del Pil finora la maggioranza si è limitata a vaghe indicazioni di spending review e lotta all’evasione. Ma per la prima, che in questi mesi fatica a innescare anche il ciclo ordinario attraverso le indicazioni dei singoli ministeri, è lo stesso Def del governo a indicare un obiettivo 2020 da due miliardi, cioè meno di un decimo di quel che serve a bloccare l’Iva. Mentre le entrate aggiuntive da lotta all’evasione hanno bisogno di tempo per essere realizzate, diventare strutturali e quindi essere conteggiate nei saldi di finanza pubblica.
Proprio la griglia dei saldi disegnata dal Def, che punta a un taglio al deficit di 6 miliardi e a una riduzione del debito, schiaccia le ambizioni anche della riforma fiscale. Che, spiega il Def e conferma la risoluzione di maggioranza, deve avvenire nel rispetto degli obiettivi di finanza pubblica definiti in questo documento. In questo quadro la revisione degli 80 euro, per quanto complicata, può aiutare ad avviare la riscrittura dell’Irpef. Ma da sola non può cambiare il conto complessivo del peso fiscale perché la trasformazione dei suoi 10 miliardi abbondanti da spesa pubblica a mancata entrata non cambierebbe di una virgola l’effetto sui saldi.