Un lavoro sfrangiato: intermittente, poche ore, bassi salari. Nel decennio della grande e doppia crisi, l’Italia ha perso e recuperato un milione di posti. Ma di fronte a un milione di occupati a tempo pieno che mancano se ne guadagnano altrettanti a tempo parziale. Il tasso di occupazione è tornato a quando gli scatoloni della Lehman Brothers non erano nemmeno immaginati. Ma quel 58,6% – peggio di noi in Europa solo la Grecia – racconta storie diverse. Sono esplosi il part-time involontario e la sottoccupazione. Chi lavora vorrebbe farlo per più ore. Ma non succede perché il lavoro non c’è. Si è polverizzato e cristallizzato assieme alla produttività stagnante. Si crea poco, le idee scarseggiano. E i vecchi mestieri si distribuiscono tra chi non è nel frattempo espatriato. Mancano 1,8 milioni di ore lavorate rispetto al 2008. I part-time involontari sono schizzati del 131%, da un milione e 195 mila a 2 milioni e 757 mila. I sottoccupati dell’88%, da 356 mila a 668 mila.
Nel frattempo il Paese invecchia. All’inizio del secolo ogni 100 giovani fino a 14 anni si contavano 130 anziani over 65. Nel 2019, 173. Tra 20 anni, 265. Uno squilibrio devastante per i conti: previdenza, sanità, assistenza. Accentuato dalla palude in cui sono finiti i nostri giovani che quei conti dovrebbero sostenere. Il tasso di occupazione nella fascia 25- 34 anni dal 2007 in poi è crollato dal 70 al 62%. Quello dei padri ultracinquantenni si è impennato dal 47 al 61%. Molti ragazzi hanno conosciuto solo contratti a termine, nelle più varie declinazioni, lievitati nel decennio da 2,27 a oltre 3 milioni, il 29% in più. Mentre quelli stabili galleggiano attorno a 14,8 milioni. Indice che l’extra lavoro creato è precario. Una condizione ormai quasi strutturale in un mercato comunque dinamico, visto il tasso di partecipazione crescente: più persone di prima cercano un posto, gli inattivi sono un milione in meno del 2007, il tasso di occupazione femminile è salito coraggiosamente dal 47 al 49,5%. Ancora basso, ma si muove.
Il lavoro cambia pelle, ma anche questa non è una buona notizia. Nel decennio perduto sono spariti un milione di artigiani e operai. E 362 mila professioni qualificate e tecniche. Mentre avanzano di 861 mila i profili esecutivi nel commercio e servizi e di 437 mila quelli non specializzati. Un dramma per le aziende che alimenta il mismatch: la domanda abbonda, ma non incrocia l’offerta seppur scarna e però mirata. Mancano le competenze, le scuole non preparano al lavoro che c’è, la tecnologia è ancora un oggetto misterioso. Proprio quando alla porta bussano robot e intelligenza artificiale.
«Nei prossimi 15-20 anni il 15% circa dei posti rischia di essere automatizzato e un altro 35% sarà profondamente trasformato, numerose mansioni saranno svolte dalle macchine. Ma l’Italia non è pronta » , ragiona Stefano Scarpetta, direttore per l’occupazione e le politiche sociali dell’Ocse. « Il lavoro non lo creano le riforme che pure non sono mancate negli ultimi anni, dal Jobs Act in poi » , spiega ancora Scarpetta. « Ma la crescita, gli investimenti e le tecnologie. L’Italia è in ritardo, ha un tasso di disoccupazione doppio della media Ocse (10,7% contro 5,2) e pure sopra la media Ue (6,5%). Ancora più preoccupante quello giovanile: 33%. Un giovane su tre non lavora. Anche qui un dato doppio se non triplo sia della media Ocse ( 11%) che di quella Ue ( 14%). E ancora: i sottoccupati sono raddoppiati in dieci anni. I posti creati nel post- crisi non sono di qualità. Molti imprenditori non se la sentono di stabilizzare e fanno contratti precari. La produttività stagna da fine anni Novanta. I salari sono piatti, quelli reali addirittura diminuiti nel 2017. Il reddito medio 2018 è al livello del 1998. E se l’Europa ora rallenta, l’Italia si ferma in recessione tecnica». Ecco il Paese del Primo Maggio.