Nelle previsioni ufficiali della crescita vince la prudenza, che fissa un aumento del Pil dell’1,5% quest’anno e poi una discesa da un decimale all’anno nel 2019 e nel 2020. Sul debito pesa invece l’effetto degli interventi salva-banche, che si riflettono su un passivo 2018 al 130,8% del Pil, cioè un punto sotto i livelli del 2017 ma otto decimali sopra le previsioni di autunno. Nessun effetto strutturale, invece, sul deficit, che dopo il 2,3% del 2017 conferma la propria discesa all’1,6% e allo 0,9% il prossimo anno, per arrivare al pareggio sostanziale nel 2020. Senza il sostegno agli istituti di credito, il 2017 avrebbe chiuso con un indebitamento netto all’1,9% del Pil, due decimali sotto rispetto alle previsioni che secondo il governo cancellerebbero il rischio di una richiesta di correzioni da Bruxelles.
Il Def approvato ieri dal consiglio dei ministri, limitato al quadro tendenziale come anticipato su queste colonne, offre quello che secondo il premier Paolo Gentiloni è il consuntivo di un’azione di governo «fondata su serietà, sostegno all’espansione e credibilità dei conti». Alla prudenza delle tabelle fa da contraltare la «convinzione personale» del ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan su una crescita potenziale italiana più alta, «vicina al 2%», ma a patto che «le riforme di questi anni siano confermate e rafforzate». La cinghia di trasmissione tra misure di finanza pubblica ed economia reale, del resto, è lunga e richiede tempo. I contratti a tempo indeterminato, 14,935 milioni, sono a meno di 100mila posti dal picco pre-crisi, ma la gelata dell’economia ha aumentato le disuguaglianze come attesta l’allegato al Def dedicato agli indicatori sul «benessere equo e sostenibile».
Proprio lo stallo politico offre uno dei tanti ingredienti dell’incertezza che domina lo scenario, e che è alimentata anche dai rischi geopolitici e dai venti internazionali di guerra commerciale. Le stesse incognite evocate ieri dal presidente della Bce Mario Draghi tornano nel Def atteso ora in Parlamento e a Bruxelles sotto forma di ricadute possibili sul Pil italiano. Lo «shock protezionistico» che si potrebbe produrre con un corto-circuito fra attacco Usa e risposta cinese, secondo un Focus elaborato dal Mef, potrebbe tagliare la nostra crescita di tre decimali già quest’anno, di sette il prossimo e di otto dal 2020: numeri che cambierebbero molto le stime a legislazione vigente.
Questi punti interrogativi si riflettono anche sulla dinamica del debito. Il 131,8% del 2017 disegna una mini-limatura rispetto all’anno prima, con uno scalino molto più ridotto di quello atteso senza le ricadute contabili dei salva-banche. A differenza di quanto accade sul deficit, che è un flusso, sullo stock di debito l’effetto ricade anche sugli anni successivi, portando la stima del 2018 a quota 130,8% del Pil, otto decimali sopra l’obiettivo indicato dalla Nadef. A spingere in alto il dato, oltre al salva-banche, c’è una crescita del Pil nominale inferiore al previsto e un aumento delle giacenze di liquidità in vista delle maggiori scadenze di titoli del debito pubblico nel 2019. Per i prossimi anni il Def mette in agenda una flessione ambiziosa (128% nel 2019, 124,7% nel 2020 e 122% l’anno dopo), grazie a una stima che però incorpora una forte riduzione del fabbisogno e tre decimali all’anno di privatizzazioni: obiettivo, quest’ultimo, sempre rilanciato dai documenti di finanza pubblica ma mancato nelle realizzazioni. Anche con la curva attuale, l’Italia sfora la regola europea sul debito per un 3,4% del Pil nel 2017, con una riduzione della forbice negli anni successivi.
L’evoluzione del quadro di finanza pubblica resta poi appesa alle modalità che la politica vorrà percorrere per disattivare gli aumenti Iva del prossimo anno, che tutti i partiti dicono di voler scongiurare impegnando il prossimo governo già con le risoluzioni parlamentari al Def. Difficile ipotizzare però nuovi spazi di deficit in arrivo da Bruxelles, perché la crescita più solida riduce la distanza rispetto al Pil potenziale (e quindi le ragioni a favore di politiche più espansive) e la battaglia per escludere dai vincoli nuove «spese eccezionali» è tutta da giocare. Sul punto va però segnalato che la riduzione degli sbarchi non riduce la spesa per la gestione dei migranti, voce che secondo il Def passerà dai 4,36 miliardi del 2017 a 4,65 miliardi in caso di «scenario costante», e potrà superare i 5 miliardi con una ripresa degli sbarchi.