Ha vissuto in Cina, parla la lingua e non ha intenzione di perdere i contatti a Pechino o a Shanghai. Anche perché Giovanni Tria ha capito che tra non molto potrebbero aiutarlo in un compito fondamentale che gli spetta da quando è ministro dell’Economia: collocare ordinatamente, a costi accettabili per il contribuente, i circa 400 miliardi l’anno in titoli di debito che permettono allo Stato italiano di funzionare, pagare le pensioni e finanziare la sanità o la scuola.
Tria ha intrecciato relazioni utili in Cina da quando era un economista universitario, e le mantiene. Sembra probabile – non già fissato in agenda, per il momento – che il ministro vada personalmente in Estremo Oriente nei prossimi mesi proprio per spiegare agli investitori asiatici perché comprare oggi buoni del Tesoro italiani conviene: sulle scadenze lunghe rendono oltre un punto percentuale all’anno più degli spagnoli, il 13% in più dopo un decennio.
Ma è qui che la finanza internazionale si incrocia pericolosamente con la politica romana, le due ormai inscindibili come poche volte in passato. La prima presenta una contabilità brutale. Negli ultimi due anni le banche e le assicurazioni italiane hanno ridotto la loro quota di esposizione al debito italiano del 3,6% (dal 30,2% al 26,6% di un debito pubblico totale da 2.312 miliardi). I fondi d’investimento nazionali hanno invece ridotto del 2,6%. Le famiglie hanno tagliato di un ulteriore 0,8%, dopo aver già dimezzato l’esposizione dal 2012; e anche gli investitori esteri sono scesi dello 0,4%. Insomma tutti coloro che potevano si sono fatti un po’ più in là. Solo un finanziatore è salito in cattedra per surrogare alla ritirata di tutti gli altri e rastrellare sempre più debito di Roma: la Banca d’Italia per conto della Banca centrale europea, la cui quota di esposizione infatti è salita del 7,7%. In altri termini l’unico vero compratore netto di titoli italiani è un’autorità europea che l’anno prossimo si ritirerà quasi del tutto. È già deciso. Ha comprato titoli per circa 120 miliardi l’anno scorso; ne comprerà al massimo per venti il prossimo, mentre l’Italia deve finanziarsi per venti volte di più. Significa che il governo deve trovare nuovi finanziatori netti, e presto.
Nasce qui l’opzione cinese di Tria. Ma è qui, anche, che la politica nazionale e le sorde lotte di corridoio dei palazzi romani incrociano la strada della finanza globale. A vari livelli. Il primo naturalmente riguarda la futura Legge di bilancio da scrivere e presentare fra settembre e ottobre, perché se quest’ultima non permettesse di limare un po’ o di stabilizzare il deficit né di far scendere davvero il debito, allora per l’Italia tutto diventerebbe più difficile. Mancherebbe la credibilità che serve attrarre nuovi investitori sul debito. Del resto una volta fatti saltare gli aumenti dell’Iva sul 2019, come promesso dal governo, servono misure correttive da 7 o 8 miliardi solo per tenere il deficit più o meno fermo attorno all’1,5% del prodotto lordo (Pil). Su quella base la maggioranza chiede poi di aggiungere una (mezza) controriforma delle pensioni, tagli alle tasse sulle partite Iva, interventi per i centri per l’impiego. La lista è così lunga che i conti non possono tornare: plausibile che Tria suggerisca a M5S e Lega di rivedere o spalmare negli anni almeno alcune promesse, in nome di una stabilità finanziaria che resta fragilissima.
C’è poi però un secondo livello, perché i grandi investitori nel debito di cui l’Italia ha bisogno non chiedono solo rendimenti. Vogliono anche prezzi stabili, senza sorprese che creino continui sbalzi. Senza che il mercato torni in fibrillazione perché il ministro agli Affari europei Paolo Savona parla di «piano B» di uscita dall’euro, o perché il vicepremier Luigi Di Maio accusa (implicitamente) i dirigenti del Tesoro di tramare «come vipere» contro il governo. Invece è successo, e non è sfuggito ai potenziali investitori di cui l’Italia ha tanto bisogno.
Anziché un rettile però la metafora più praticata riguarda un pennuto: «canarino nella miniera». Sono quelli che, se cadono in volo, rivelano che l’aria è satura di gas tossici. È così che nella Bce a Francoforte hanno preso a definire Daniele Franco, il ragioniere generale dello Stato. L’uomo ha la credibilità e l’autorità legale di vidimare ogni misura di bilancio, dunque anche di impedire scelte troppo audaci e pericolose in Legge di stabilità. Per ora si muove senza troppi problemi. Ma se le spinte politiche lo inducessero a lasciare, il messaggio dalla miniera-Italia alla Bce e ai mercati sarebbe fin troppo chiaro: rischio esplosione imminente.