Era previsto da tempo e ieri si è svolto un incontro decisamente intenso a Palazzo Chigi. Con il premier Giuseppe Conte c’erano il direttore generale del Tesoro Alessandro Rivera, il neo-ragioniere generale dello Stato Biagio Mazzotta e Luigi Carbone, il capo-gabinetto del ministro dell’Economia. Giovanni Tria, lontano da Roma ieri, era collegato in teleconferenza. Questa sorta di cabina di regia doveva prendere due decisioni immediate: cosa scrivere nella lettera che il governo deve mandare alla Commissione Ue nei prossimi giorni e, prima ancora, cosa potrà dire Conte a Jean-Claude Juncker per rassicurarlo sulla situazione italiana quando i due si vedranno stasera a Bruxelles alla cena post-elettorale fra leader europei.
Il presidente della Commissione prevede che in autunno sarà lui a gestire la partita del prossimo bilancio italiano, non il suo successore: l’esecutivo attuale potrebbe infatti restare in carica oltre ottobre, durante le schermaglie per la nomina del prossimo. Per questo Juncker ha scelto di non aspettare l’ultimo momento ma — come anticipato dal «Corriere» (24 aprile e 21 maggio) — di far balenare da subito quella che, formalmente, è una «procedura per deficit eccessivo basata sul debito». Ha gli strumenti legali per farlo in qualunque momento. Rispetto a novembre, quando l’Italia andò vicinissima alla procedura prima di emendare il bilancio, c’è infatti un fattore nuovo: l’«inosservanza» non riguarda solo i piani per il futuro — sempre modificabili — ma i conti chiusi del 2018. L’anno scorso il governo di Paolo Gentiloni, per evitare la procedura, si era impegnato a ridurre dello 0,3% del prodotto nazionale il deficit «strutturale» (cioè al netto delle oscillazioni temporanee). Invece quello zoccolo di fondo di disavanzo alla fine è salito, soprattutto a causa dell’aumento dei tassi d’interesse da quando il mercato nel 2018 ha iniziato a temere due scenari: prima pensò che il governo giallo-verde potesse portare l’Italia fuori dall’euro; in seguito che avrebbe fatto salire molto il deficit. Gli investitori hanno chiesto rendimenti più alti per compensare il rischio di dar fiducia all’Italia, quindi i conti sono peggiorati.
C’è poi un altro motivo dietro la mossa di Juncker e di Pierre Moscovici, il commissario Ue per gli Affari monetari, in vista di una possibile procedura: i due non sono convinti né dal quadro di quest’anno, né dai piani per il prossimo. Nel 2019 la Commissione Ue prevede un aumento di deficit e debito italiani, l’anno prossimo un ulteriore balzo del debito e un deficit ben oltre il 3% del Pil. A Bruxelles si è preso nota che i leader a Roma promettono forti tagli alle tasse (la «flat tax»), malgrado i conti siano su un piano inclinato, ma escludono gli aumenti di imposte sui consumi (Iva e accise) che sono già legge.
Previsioni
La Commissione Ue prevede nel 2020 un balzo del deficit ben oltre il 3% del Pil
Salvo cambi di rotta, il rapporto sul debito dell’Italia il 5 giugno dirà dunque che è «giustificata una procedura per disavanzi eccessivi basata sul debito». Lo aveva già scritto il 21 novembre, primo passo in vista di quell’ingranaggio che avrebbe sottoposto il Paese a una sorveglianza diretta, continua e prolungata per anni. Allora il governo cambio rotta in extremis per non entrare in quella gabbia. Questa volta, entro la settimana, da Bruxelles sta partendo una lettera preliminare in cui si chiede al governo se esistono «fattori attenuanti» prima di stilare il rapporto.
La risposta è ciò a cui Conte, Tria e gli sherpa del Tesoro hanno lavorato ieri a Palazzo Chigi. Dall’Italia si farà presente che l’andamento dell’economia e dei conti è un po’ migliore di quanto si temesse; che la lotta all’evasione quest’anno può contare sul dividendo dell’accordo con Gucci, che verserà 1,2 miliardi; e che le spese sul reddito di cittadinanza, più che sulle pensioni anticipate di «quota 100», sono meno del previsto. In più, al Tesoro si studia una spending review che permetta il taglio di intere funzioni obsolete e si cerca di portare a termine almeno 4 o 5 miliardi di privatizzazioni — sul mercato — sui 18 annunciati.
Non è chiaro che tutto ciò a Juncker basti, al contrario. L’innesco del 5 giugno implica che i ministri finanziari europei da allora avranno quattro mesi per mettere l’Italia in procedura, ma in sostanza devono decidere entro il 9-10 luglio (non ci saranno altri Ecofin formali fino a ottobre). Dunque dopo lo scossone del voto europeo, il governo ha un mese per scegliere: fare subito concessioni concrete a Juncker sui conti, o accettare una sorveglianza molto stretta con la prospettiva di tensioni sempre più acute sia fra Roma e Bruxelles che sui mercati. Ieri il primo assaggio: gli investitori hanno subito venduto l’Italia, facendo salire di 13 punti (0,13%) i rendimenti dei titoli decennali, quando il vicepremier Matteo Salvini ha accennato alla procedura e ne ha respinto l’approccio. È dunque una partita ad alto rischio, che Juncker non vuole lasciare aperta andandosene. A Roma si ritiene che le regole Ue siano sbagliate, asfissianti. A Bruxelles ci si sente presi in giro per gli impegni disattesi dall’Italia, mentre il debito sale e sale. «Capiamo gli inconvenienti di aprire la procedura — si dice dalla Commissione — ma uno si può chiedere quale sia l’utilità di non farlo».