Il tema del debito pubblico sembra un argomento dimenticato, quasi la strategia comunicativa fosse quella di non parlarne sperando che in questo modo svanisca per incanto. Ma purtroppo la sua carica negativa, fatta di numeri e non di parole, è ben presente e riduce drammaticamente i nostri spazi di manovra. Un confronto con gli altri Paesi comunitari è allora un esercizio utile per cogliere quanto è diversa l’Italia, anche in vista delle elezioni europee. Sulla dimensione del nostro debito pubblico si è spesso parlato, ma minore attenzione è stata data agli interessi che ogni anno paghiamo sul debito.
Se confrontiamo i Paesi Ue, l’Italia è purtroppo prima in questa poco consolante classifica: quasi 65 miliardi spesi in interessi. Dietro di noi la Gran Bretagna con 59 miliardi e poi la Francia con 40, la Germania con 30 seguita di poco dalla Spagna con 29. Queste cifre diventano ancora più preoccupanti se rapportiamo gli interessi al Pil, per poterne avere una visione comparabile: anche in questo caso il nostro paese rimane inesorabilmente al primo posto, con un 3,7%, seguito dal Portogallo al 3,5%. La Francia e la Germania appaiono molto distanti con, rispettivamente, 1,7% e 0,9%. Anche la Grecia, che ha speso l’anno scorso 6 miliardi di interessi va meglio di noi: se rapportati al Pil si attestano al 3,3%. Per chiudere il quadro, i 65 miliardi italiani rappresentano il 22% della spesa per interessi della Ue, che diventano il 27% con la Brexit.
Su questo tema è proprio difficile dare la colpa a qualcuno o pensare che i numeri non dicano nulla. Le conseguenze di questa situazione sono forti e si posano sulle spalle di tutti. Tre sono i punti per comprenderne il significato concreto. Il primo: avere un conto di 65 miliardi significa bruciare risorse che potrebbero essere impiegate in tanti altri modi, dalla riduzione delle imposte, all’istruzione, alla sanità. Il secondo: una spesa così elevata, combinata con un debito pubblico enorme, obbliga ad un monitoraggio continuo dello spread, per evitare che una crescita, anche marginale dei tassi, faccia aumentare il conto da pagare. Il terzo: alte spese per interessi e elevato debito pubblico, aumentano la tentazione di «svendere» pezzi del portafoglio dello Stato solo per fare cassa nel breve e raggiungere qualche obiettivo spendibile politicamente. Per nostra memoria, nel mezzo della crisi 2012, gli interessi che dovevamo pagare erano 83 miliardi e nessuno, con buon senso, si deve augurare un ritorno a quei valori.
Nessun governo, di oggi o di domani, è responsabile delle ragioni che hanno portato a questi dati che ci rendono diversi da tutti. Ma responsabilità di governo è farsi carico di questa eredità, per provare a gestirla e dare un segnale forte al mondo. E il tentativo di ridurre la spesa per interessi, che passa attraverso la riduzione dello spread e l’inversione della rotta sul debito, avrebbe come conseguenza immediata di liberare risorse da utilizzare a beneficio dei cittadini. Ma qual è la strada da intraprendere? La strategia da seguire non è necessariamente quella della soluzione «estrema», la della ristrutturazione del debito e la «patrimoniale senza precedenti» che ciclicamente viene proposta. Prima di questo occorre provare un percorso su più fronti, legati dal comune denominatore della credibilità.
Il primo è quello di un impegno formale e rigoroso con l’Ue per un lenta ma progressiva discesa del debito, come già avvenuto fra il 1998 e il 2007, quando si arrivò a toccare il 99,79%. Questo contribuirebbe in maniera netta a eliminare qualsiasi tensione sullo spread, provocando il vantaggio immediato della riduzione del conto da 65 miliardi. Il secondo è quello di potenziare gli investimenti, non utilizzando la scorciatoia del debito, ma ricorrendo ad un politica di attrazione dei capitali con l’utilizzo di schemi pubblico-privato verso aree che sostengano la crescita materiale (infrastrutture) e immateriale (tecnologia, educazione, salute) del paese. La Cdp ha dato in passato prova che è possibile combinare l’indirizzo pubblico con capitali privati, a sostegno delle medie imprese, dei campioni nazionali o dell’export o dell’innovazione che ci distingue ancora una volta da tutti gli altri anche sotto il profilo etico. Ma anche questo sembra un tema annegato nell’oblio collettivo. E mentre ci confrontiamo con la meravigliosa innovazione della fattura elettronica, forse occorrerebbe andare invece sulla strada dell’obbligatorietà dei pagamenti elettronici. Anche un paese con evasione e complessità ben più alte delle nostre, come l’India, è riuscito ad andare su questa strada. L’auspicio non è solo che i prossimi impegni di bilancio vadano in questa direzione, ma anche che le proposte politiche si confrontino con i numeri per dare vita a soluzioni che mastichino il boccone amaro del debito e provino a liberare spazio a spese e investimenti per un Paese diverso