Chi supera le porte di cristallo della torre della Banca centrale europea, inaugurata nel 2014, ha la sensazione di entrare in una cattedrale gotica e insieme in uno spazio prelevato a forza dal futuro: quando l’area euro, nelle intenzioni, sarà davvero diventata una potenza sicura di sé e del suo posto nel mondo. Da un anno al quarantesimo e ultimo piano siede, non lontano dal presidente Mario Draghi, Luis de Guindos Jurado: lo spagnolo che da ministro ha portato la Spagna dalla crisi più profonda della sua storia democratica ai tassi di crescita più rapidi fra le grandi economie europee. Oggi a 59 anni de Guindos è vicepresidente della Bce e in quest’intervista esclusiva al «Corriere» dimostra che, da banchiere centrale, non ha perso la concretezza che in passato ha tanto aiutato il suo Paese.
Vicepresidente de Guindos, gli investitori prevedono che l’inflazione in zona euro resti sotto agli obiettivi della Bce nei prossimi dieci anni. Le loro aspettative non sono mai state così basse. Avete già fatto molto ma Draghi ha detto che questo mese avete discusso altre opzioni, incluso un riavvio degli acquisti di titoli («quantitative easing»). Quale segnale può farvi decidere?
«Dobbiamo vedere un venir meno dell’ancoraggio delle aspettative d’inflazione. Non è ancora successo, malgrado la caduta delle aspettative di mercato. Se lei guarda al sondaggio sulle attese degli analisti, la Survey of Professional Forecasters, la situazione è leggermente diversa: le aspettative sono rimaste stabili. Poi dobbiamo vedere se ci sarà un ulteriore calo significativo dell’attività economica, un cristallizzarsi dei rischi al ribasso che abbiamo indicato. Noi possiamo sempre cercare di guardare in avanti per farci un’idea di ciò che potrebbe accadere, ma alla fine la realtà è la realtà. Stiamo a vedere cosa succede. Ma credo che la parte importante della nostra posizione sia che siamo completamente pronti a reagire».
Significa che il vostro orientamento attuale è quello giusto, se le previsioni dei vostri esperti sono confermate?
«Sì. Se ci sarà un ulteriore deterioramento, a quel punto reagiremo. Per ora il nostro orientamento di politica monetaria è pienamente compatibile sia con l’inflazione che con i livelli di attività reale dell’economia. Ciò che conta è che siamo totalmente pronti a reagire. E aggiungerei un altro elemento, se posso: i rischi sono orientati al ribasso».
Intende dire, in termini di attività economica reale?
«Sia in termini di attività reale che di inflazione. Quindi se quei rischi si concretizzeranno, reagiremo».
Tagliare i tassi serve se c’è un problema di tasso di cambio dell’euro e fare «quantitative easing» se ce n’è uno di debolezza dell’economia?
«Non facciamo un’allocazione dei diversi strumenti sui diversi obiettivi. Ciò che trovo importante, ma a volte un po’ trascurato, è che la politica monetaria non è la panacea. Se c’è un problema di stabilità dei prezzi, rientra nel nostro mandato. Ma c’è qualcosa che tutti dovrebbero tenere presente per evitare di creare aspettative irrealizzabili: non abbiamo la pietra filosofale».
Lei che è stato ministro dell’Economia a Madrid sa bene che i rendimenti dei titoli di Stato di Italia e Spagna erano a livelli simili durante la crisi. Oggi lo scarto fra Bonos e Btp a dieci anni è oltre 180 punti-base, a favore di Madrid. Più di quello che la Germania aveva sull’Italia fino al maggio 2018. Come si spiega questa divergenza?
«Dico subito che non voglio fare confronti fra la Spagna e l’Italia. Se mi concentro sull’Italia, credo però che il principale problema sia da tempo la crescita molto bassa. L’Italia non è tornata ai livelli di Prodotto interno lordo (Pil) che aveva nel 2008».
Secondo lei, perché?
«Credo ci siano due elementi. Il primo è il livello estremamente alto di debito pubblico, una spada di Damocle che pende sulla testa. Secondo, c’è un problema di riforme strutturali. Ma nell’economia italiana ci sono pro e contro. I contro sono una crescita lenta, il debito pubblico, una mancanza di riforme strutturali e dunque una bassa crescita della produttività. Ma l’Italia ha anche dei vantaggi che dobbiamo riconoscere. Il primo è che ha un surplus di partite correnti, nel complesso degli scambi con il resto del mondo. La posizione finanziaria netta sull’estero è buona e questo riduce la vulnerabilità dell’economia. E quando si guarda alla situazione di bilancio nel tempo, non è stata male: quasi tutti gli anni l’Italia ha avuto un avanzo prima di pagare gli interessi sul debito. Non è molto facile riuscirci, dunque è un precedente molto buono, soprattutto in confronto ad altri Paesi».
Dunque, cosa dovremmo fare?
«Si torna al problema della bassa crescita, che ci porta immediatamente alle questioni delle riforme strutturali, delle barriere all’ingresso nel mercato, dell’efficienza nel mercato del lavoro… Cose che qualche volta sono un po’ trascurate».
Lei dice: niente confronti Spagna-Italia. Ma non c’è mica niente di male nel farlo per com’eravamo nel giugno-luglio 2012. La situazione era molto simile.
«Eravamo molto vicini. Eravamo sull’orlo…»
E i due Paesi presero strade diverse. Madrid decise di accettare un programma europeo per le banche, l’Italia s’impegnò per farcela da sola.
«La situazione della Spagna nel 2012 era diversa: da noi il governo aveva una maggioranza assoluta in Parlamento, in quello fummo fortunati. E la pulizia delle banche fu profonda. Non fu facile; fu sanguinosa, glielo posso assicurare. Ma la facemmo e, dopo, riuscimmo a gestire una questione come Banco Popular. Neanche quello fu facile. Poi la Spagna ha guadagnato molta competitività grazie alla riforma del mercato del lavoro. Questi furono i due fattori. Ma non voglio fare un confronto con l’Italia, parlo della Spagna adesso. Nel 2013 ricominciammo a crescere e negli ultimi cinque o sei anni il Paese ha avuto una performance migliore dei suoi pari».
Dunque lei pensa che per la Spagna concentrare il prima possibile quegli sforzi abbia funzionato?
«Sì, credo di sì. A Madrid c’era un governo con una maggioranza assoluta, ma anche così allora fu difficile politicamente. Ma in Spagna, a prescindere da quali partiti siano al potere, l’approccio pro europeo è garantito. Anche se si considerano le due ali estreme, Vox e Podemos».
Neanche loro mettono in discussione l’euro?
«Magari hanno approcci diversi sulla politica di Bilancio, ma non dicono che vogliono lasciare l’euro. Per niente».
Il presidente francese Emmanuel Macron ha proposto un Bilancio dell’area euro per stabilizzare i Paesi colpiti da crisi economiche. Si sta arrivando a uno strumento minimo. Che ne pensa?
«Ciò che è stato concordato nel Consiglio europeo (un piccolo Bilancio per ‘competitività e convergenza’, ndr) è un primo passo. Ma non dovrebbe essere lo stato permanente di quello strumento. Può crescere e gli può essere assegnata una funzione chiara: la stabilizzazione anticiclica. Dobbiamo condividere di più i rischi, se vogliamo migliorare la performance dell’area euro e ridurre l’onere sulla politica monetaria. E c’è un elemento che sarà critico per riuscirci: la fiducia».
Lei si riferisce alla fiducia che occorre avere in ogni Paese che tutti gli altri si comportino correttamente. Ma se uno non è visto così, come succede oggi con l’Italia, la preoccupa che ciò possa creare dei danni?
«L’Italia non è un’economia molto vulnerabile finanziariamente, se si tiene conto della posizione patrimoniale netta sull’estero e di altri fattori. Se vuole un esempio di un’economia vulnerabile, guardi alla Spagna nel 2010. Aveva un deficit esterno del 10% del Pil e una posizione patrimoniale netta negativa del 90% del Pil. Non è la situazione dell’Italia oggi. Il mio punto è che la fiducia a volte dipende dalle intenzioni politiche del governo».
Vuole dire che il governo italiano dovrebbe fornire alcuni chiari obiettivi che siano accettabili al resto del club?
«Sì, da entrambe le parti. È una partita bilaterale, dunque da entrambe le parti. Penso sia molto difficile fare passi avanti se non si riesce a costruire fiducia. E poiché stiamo parlando di fiducia e incertezza in tempi difficili, credo che quest’idea di discutere i mini-Bot sia stata un errore. Draghi ha detto che se fosse una moneta legalmente utilizzabile, sarebbe illegale e che se fosse debito, allora accumulerebbe ancora più debito. Dal mio punto di vista, la conseguenza peggiore è che questo tipo di decisione distrugge la fiducia».