Ingegner De Benedetti, lei il 14 novembre compirà 85 anni. Che senso ha ricomprarsi Repubblica e il gruppo Gedi?
«Sono ben conscio della mia età. Ma mi sento molto bene. E sono in condizioni di condurre in porto un’operazione in due tempi».
Perché in due tempi?
«Il primo: raddrizzare la gestione dell’azienda, che è stata del tutto inefficace».
Perché dice questo?
«Non lo dico io; lo dice il mercato. Il metro dell’inefficacia della gestione è il prezzo di Borsa cui il titolo è precitato: 25 centesimi. È un’azienda senza vertice e senza comando. Una nave senza capitano, in balia di onde altissime: perché il mestiere dell’editoria quotidiana non è facile in nessuna parte del mondo».
Quale soluzione propone?
«Riprendere a investire pesantemente in un settore in cui Repubblica per anni ha eccelso: il digitale. Poi verrà il secondo tempo. Una volta che l’azienda sarà in condizione di navigare, pur sapendo che i mari resteranno procellosi, dobbiamo trovare un approdo».
Vale a dire?
«Portare le mie azioni, convincendo gli altri azionisti a fare altrettanto, in una Fondazione. Una Fondazione cui parteciperanno rappresentanti dei giornalisti, dirigenti del gruppo, personalità della cultura. L’obiettivo è assicurare un futuro di indipendenza a un pezzo di storia italiana».
Un pezzo della sua vita, ha detto lei.
«Certo. Ma anche un pezzo importante della vita di questo paese. Tante cose sono avvenute su Repubblica, e tante cose sono avvenute a causa di Repubblica, sia sul piano politico che su quello culturale, direi anche civico. Il gruppo Espresso ha avuto in Italia un ruolo fondamentale. Merita di essere conservato e gestito. Sono felice di poter dedicare due, tre anni del mio tempo e della mia vita a rimettere in sesto un’azienda sconquassata e non gestita. So anche quali sono i limiti di una persona di 85 anni: da qui lo sbocco di una Fondazione. Sono convinto di riuscire a persuadere gli altri soci che si tratta di un dovere di fronte al Paese, che spetta a chi ha avuto l’onore e l’onere di gestire il gruppo».
Dovrà prima convincere i suoi figli. Ha parlato con loro?
«No. Sarebbe stato inutile, perché non accettano le premesse: riconoscere che non sono capaci di fare questo mestiere».
Sono parole molto dure.
«I miei figli sanno fare bene altri mestieri. Ma non hanno la passione per fare gli editori. Non hanno neanche la competenza; ma prima di tutto non hanno la passione. E senza passione non puoi fare un mestiere così particolare, artigianale, per il quale occorrono sensibilità, gusto estetico, cultura, capacità di conduzione di uomini, talento per mettere insieme un’orchestra e il direttore che la dirige, decidere quale spartito suonare. I miei figli, in particolare Rodolfo, lo considerano un business declinante; e non hanno neanche torto. Ma questo significa considerarlo un mestiere qualsiasi; e invece l’editore non è un mestiere qualsiasi. La grande ingenuità dei miei figli è continuare da tempo a cercare un compratore per il gruppo. Una ricerca inutile: in Italia un compratore non c’è».
Si è parlato di fondi di investimento.
«Io parlo di editori. Un compratore c’è sempre. Ma il mestiere dell’editore è talmente difficile e ingrato che, se uno decide di comprare un oggetto come Repubblica, lo fa per difendere altri interessi: politici o economici».
Un giornalista che di economia si intende, Paolo Madron, ha definito la sua un’ «offerta dimostrativa». Cioè insufficiente. Pensa a un rilancio? A un’Opa?
«Intanto gli azionisti Cir dovrebbero ringraziarmi per questo regalo piuttosto consistente: la mia offerta ha fatto aumentare il valore in Borsa del titolo di oltre il 15%. Un contributo più rilevante di quello che ha dato l’attuale gestione. Il mercato ha dimostrato che l’azienda, se gestita non dai miei figli, vale di più. Gestita dai miei figli, l’azienda vale 25 centesimi ad azione. La pago al prezzo cui hanno ridotto l’azienda. Perché dovrei pagarla di più? E poi non compro tutto, ma il 30 per cento. Non è questione di soldi, non voglio fare un affare. Le ripeto che dopo il rilancio intendo regalare le azioni a una Fondazione».
Ma il prezzo è basso.
«Lo so anch’io che è basso. Segno che hanno fatto un bel disastro».
Accettare l’offerta costringerebbe la Cir a svalutare la sua quota di Gedi. Si parla di una perdita di 150 milioni.
«La perdita c’è già, non sarebbe determinata da una vendita. Non è dovuta a me; è dovuta a loro».
Un giornale può stare in piedi con una Fondazione?
«In Italia non è ancora accaduto. Ma in Inghilterra e in Germania esistono Fondazioni che hanno la proprietà di un giornale. Non propongo un atto di generosità; propongo un atto di responsabilità. Capisco che i miei figli non amino il giornale; smettano però di distruggerlo. Si convincano e convincano gli altri azionisti Cir ad aderire a questo programma, visto che non si sono dimostrati capaci di gestire, non hanno idea di come farlo, e si ostinano a cercare un acquirente che non c’è».
Urbano Cairo ha parlato di «mossa romantica».
«È un’espressione che ho apprezzato. Mi ha fatto piacere».
Con John Elkann ha parlato?
«Sì. L’ho chiamato. Mi ha ringraziato. Era in viaggio, ci risentiremo per discuterne».
Chi potrebbe presiedere la Fondazione?
«È prematuro parlarne. Per due o tre anni il presidente lo devo fare io. Dobbiamo prima lavorare, salvare, investire. Poi decideremo».
Per il nuovo direttore di Repubblica lei ha avuto parole lusinghiere.
«Le confermo. Sono soddisfatto di Carlo Verdelli».
Con Eugenio Scalfari ha parlato?
«No».
Dai giornalisti le sono arrivati segnali?
«Sì. Di grande soddisfazione. Lei sa quanto sia importante l’atmosfera in un’azienda editoriale. Un’azienda editoriale non è fatta di carta e inchiostro; è fatta di persone, idee, passioni. Ecco: ci vuole passione. E ci vuole qualcuno che te la ispiri. Non è un lavoro impiegatizio. Ci vogliono coinvolgimento e condivisione».
Benetton, Del Vecchio, ora lei: non è uno strano Paese, quello in cui i vecchi ambiscono a prendere il posto dei giovani?
«Sono singolari coincidenze. Diciamo che c’è molta gente che molla, e c’è poca gente che osa».