Eterogenesi dei dazi. Imponi dazi per proteggere le tue fabbriche. E, così, le danneggi. Provi a regolare il commercio internazionale appesantendolo di tariffe con l’obiettivo di difendere gli operai e gli impiegati dei tuoi stabilimenti. Gli altri reagiscono mettendo a loro volta dazi sulle tue merci e riempiendo di nuovi obblighi burocratico-giuridici le tue imprese esportatrici, una leva meno nota ma altrettanto dannosa. Alla fine, il conto lo pagate tu, il tuo Paese e i tuoi lavoratori.
Nella vicenda della guerra commerciale fra Stati Uniti e Cina, c’è una dimensione americana e c’è una dimensione globale. Ma l’effetto rischia di essere destabilizzante per la manifattura mondiale e ancora più pericoloso per l’industria europea.
In America il Midwest dei colletti bianchi e dei colletti blu ha votato per Trump. Nella Detroit Area, dove il sindacato dell’automobile Uaw ha sempre appoggiato i democratici, Trump ha prevalso. The Donald, adesso, è di parola.
Prova a bloccare quella siderurgia cinese che è una delle cause della crisi della Rust Belt, la “cintura della ruggine” che dallo stato di New York arriva fino al Wisconsin, passando per la Pennsylvania e la Virginia, l’Ohio e l’Indiana, il Michigan e l’Illinois. E, così, rischia di danneggiare quelli che vuole proteggere. Non a caso, General Motors e Ford, perni di quel sistema dell’auto che beneficia dell’acciaio cinese a basso costo, hanno espresso tutta la loro inquietudine per la guerra commerciale con Pechino.
Ma, soprattutto, attuando la strategia del nemico esterno, chiude gli occhi sul nemico interno. Trump chiude gli occhi davanti alla abdicazione manifatturiera delle classi dirigenti americane. È vero che, secondo lo Us Bureau of Labor Statistics, l’industria americana ha perso dal 2000 sei milioni di posti di lavoro, il 33 per cento. Ma è altrettanto vero che, secondo una analisi di Roland Berger, da allora sono aumentati i profitti (il rapporto fra Ebit e valore aggiunto è salito dal 20% al 30%) ed è calata la rotazione degli asset (il rapporto fra valore aggiunto e capitale investito è calato da 1,1 a 0,8). Le fabbriche americane sono state spremute dai loro proprietari, che hanno guadagnato di più e investito di meno.
Oltre al piano americano, c’è il piano globale. Perché l’intera economia mondiale è basata sulle Global Value Chain: i sistemi economici nazionali sono interdipendenti e la manifattura internazionale è un gigantesco organismo unico e molteplice, articolato e coeso. Il problema non è costituito soltanto dagli effetti puntuali del protezionismo americano: per esempio, nel caso della piccola Italia, secondo Prometeia un ritorno ai dazi americani del 1989 porterebbe a un conto di 800 milioni di euro, pagato soprattutto da moda, agroalimentare, design e meccanica. Il problema più profondo sarebbe la rottura dell’intero meccanismo di funzionamento del capitalismo internazionale, industriale e commerciale. Una rottura che colpirebbe soprattutto le economie dell’area euro, che sono intimamente connesse alle catene globali del valore avendo adottato tutte il modello della Bazaar economy di Hans-Werner Sinn: vai in giro per il mondo, prendi quello che ti serve, produci dove credi – preferibilmente a casa tua – e vendi dove puoi.
Consideriamo la Germania e l’Italia. Secondo il paper di Antonio Accetturo e Anna Giunta “Value Chains and the Great Recession: Evidence from Italian and German Firms” (numero 304 delle Questioni di Economia e Finanza della Banca d’Italia, anno 2016) la quota di aziende industriali che partecipa alle catene globali del valore è pari al 68% in Italia e al 50% in Germania. Dunque, i due Paesi guida della manifattura continentale sono una cosa sola con il capitalismo internazionale, nella versione che conosciamo. In Italia, sono prevalenti – il 59% – le aziende intermedie, cioè quelle che si trovano all’interno delle catene globali del valore, non alla fine di esse. Le intermedie tedesche sono il 35 per cento. Le imprese italiane finali – cioè che quelle hanno il rapporto diretto con il cliente – sono il 5% (l’8% le tedesche). Le aziende intermedie sono più vulnerabili perché hanno meno potere di mercato.
Andiamo al dunque: in caso di guerra commerciale, l’Europa è in pericolo.L’Italia è molto in pericolo. E, ora, siamo in guerra. Eterogenesi dei dazi: per difendere le fabbriche imponi i dazi, colpisci le tue fabbriche e danneggi le fabbriche degli altri.