In queste ultime settimane in molti si sono interrogati sugli umori di un Nord produttivo distante dall’agenda del governo giallo rosso appena costituito. Regioni saldamente nelle mani di un centro destra oggi guidato dalla Lega faranno fatica – si ripete da più parti – a digerire un progetto politico che nasce da un consenso maturato principalmente nelle regioni del centro e sud Italia. Soprattutto, sottolineano in molti, rischia di mancare il punto di vista delle imprese che in questi dieci anni di crisi del Paese hanno saputo sfidare la crisi e intraprendere percorsi di successo a livello internazionale.
I dubbi sulla capacità del governo di offrire risposte alle imprese sono fondati. È legittimo domandarsi, tuttavia, come mai dopo più di dieci anni di riflessioni e di analisi sull’evoluzione della struttura produttiva del Paese, i diretti interessati – gli imprenditori del nuovo Made in Italy – non abbiano ancora costruito un proprio discorso sul futuro del Paese con tanto di scenari e proposte. Come è possibile che la parte più dinamica di questo partito del Pil, il quarto capitalismo delle medie imprese più internazionalizzate e più innovative, non abbia investito in maniera significativa su un soft power in grado di garantire stabilità e coerenza a un’agenda politica bipartisan? La migliore manifattura italiana ha idee interessanti e condivisibili su temi chiave come scuola, ricerca, lavoro, sostenibilità, cultura. Perché non aggregare le tante esperienze di questi anni in un ragionamento comune? L’assenza di un discorso compiuto colpisce particolarmente dopo che nell’ultimo anno sono stati messi in discussione alcuni pilastri delle politiche a sostegno della competitività delle imprese come il pacchetto Industria 4.0 e l’alternanza scuola lavoro.
Le ragioni di questa mancanza di voce sono diverse. Un primo aspetto riguarda il tema della solitudine. Chi dedica tempo e attenzione al dialogo con gli imprenditori coglie facilmente il senso di isolamento che ha segnato la loro crescita. Molti dei successi ottenuti in questi anni sono lontani dall’ortodossia delle lezioni di management. L’impegno di tante imprese nel presidiare nicchie di mercato lontane dall’attenzione del grande pubblico ha allontanato imprenditori di successo da quei soggetti (banche, università, associazioni di categoria) che il più delle volte ne hanno riconosciuto i meriti solo ex post. Questa percezione di diversità rende difficile costruire collegamenti sensati fra storie che si alimentano della propria specificità. Senza disconoscere i meriti di imprenditori tenaci e coraggiosi, oggi più che mai varrebbe la pena che proprio questi ultimi provassero a considerare i loro percorsi dentro un quadro più generale, spendibile in un progetto politico di ampio respiro.
Un secondo aspetto che rende silenziose queste imprese è l’ossessione di imprenditori e manager per la focalizzazione sugli obiettivi di crescita e di redditività. Anni di cultura organizzativa centrata sulla lotta agli sprechi, sul miglioramento continuo, sul presidio di mercati internazionali (con budget spesso molto contenuti) hanno asciugato l’interesse per la politica a livello nazionale e, spesso, per il coinvolgimento all’interno delle rispettive comunità. Se l’impresa della produzione di massa non poteva fare a meno di un consenso nazionale e territoriale (e per questo investiva nel presidio di legami culturali e politici) l’impresa del quarto capitalismo ha preferito puntare le sue fiches su obiettivi misurabili, riducendo al minimo gli investimenti al di fuori di ciò che viene definito core business. Questa strategia ha un senso se la società e la politica sostengono e apprezzano lo sforzo delle imprese. È da un po’ che le cose non vanno più in questa direzione.
Un terzo aspetto che merita di essere considerato è la difficoltà delle associazioni di categoria nel dare la giusta visibilità a percorsi di impresa particolarmente brillanti. Chi ha lavorato con il mondo associativo conosce la difficoltà nel tenere insieme le richieste delle imprese più in difficoltà con i desiderata dei champion. In questi anni è stato complicato bilanciare le richieste di tutela con le proposte che arrivano dalla componente più dinamica delle imprese. Di fronte alle difficoltà nel far valere le proprie ragioni, molti imprenditori di successo hanno rinunciato a un ruolo attivo nei corpi intermedi rafforzando le proprie convinzioni rispetto alla solitudine dell’imprenditore.
Mai come ora questa deriva merita di essere messa in discussione. La migliore imprenditorialità del Nord Italia non può continuare ad attendere politici in grado di interpretare le loro esigenze. Lo scenario internazionale si è fatto troppo impegnativo per non contare su politiche all’altezza. È necessario che le imprese più dinamiche puntino a recuperare voce e progettualità. Si tratta di mettere da parte la narrativa di un Made in Italy fatto semplicemente di eccellenze fuori dal comune per enfatizzare gli elementi che accomunano i campioni della crescita, anche utilizzando strumenti di comunicazione al passo coi tempi. Oggi questi elementi di carattere generale stentano a essere messi a fuoco dalla collettività. Una riflessione sul futuro dell’economia italiana e una proposta autorevole delle imprese su temi come il lavoro, il capitale umano, la sostenibilità, il commercio internazionale rischiano di far molto bene al dibattito politico del Paese. Soprattutto possono contribuire in modo significativo al rilancio di quel Nord silenzioso che tutti si affannano a decifrare.