Non è bastata la crescita delle lavoratrici negli anni della crisi, né la legge sulle quote rosa nei consigli di amministrazione delle società quotate. L’Italia resta agli ultimi posti in Europa nella classifica dei Paesi messi in fila per capacità di valorizzare il talento femminile.
La Fondazione Leone Moressa ha realizzato per Il Sole 24 Ore un indice europeo che tiene conto di 9 variabili riferite all’universo femminile relative a istruzione, occupazione, tasso di fecondità e possibilità di carriera.
Dal mix degli indicatori emerge un ranking europeo che incorona gli Stati dove le donne non solo hanno una forte presenza sul mercato del lavoro, ma riescono anche a coprire ruoli di prestigio e a conciliare affari e famiglia.
A salire sul podio, dal gradino più alto a quello più basso, sono Svezia, Olanda e Danimarca. «Le prime due classificate sono molto vicine ma hanno alcune differenze tra loro – spiega Chiara Tronchin, ricercatrice della Fondazione Moressa -: in entrambi i casi la partecipazione al lavoro è elevata, ma mentre in Olanda (76%) è alto il part-time, non è così in Svezia (34,4%). Quindi, sebbene in modi leggermente diversi, tutti e due i Paesi sono riusciti a valorizzare la componente femminile, trovando un equilibrio».
Situazione opposta per gli Stati dell’Europa mediterranea come Grecia, Spagna, Italia e Cipro, che hanno risentito maggiormente della crisi economica, con un calo anche delle nascite. In Italia, le donne sono in realtà cresciute nel periodo “nero” – dal 2008 al 2018 si sono registrate 400mila lavoratrici in più -, supplendo in parte alla perdita di lavoro maschile. Partivano però da un tasso di occupazione molto basso, che tuttora resta al di sotto del 50%: distante perciò anni luce da Svezia, Danimarca e Germania, tutte oltre il 70 per cento. E questo ha come effetto collaterale anche il rallentamento della fecondità nel nostro Paese.
«A pesare – commenta Luigi Campiglio, ordinario di Politica economica all’università Cattolica di Milano – sono i forti ritardi del Sud dove la maggior parte delle donne è fuori dal mercato del lavoro e quelle che invece sono occupate hanno spesso carriere discontinue e redditi bassi».
Mettendo poi sotto la lente la diffusione del part-time emergono con evidenza le due facce della stessa medaglia: se in paesi come l’Olanda la formula è molto gettonata tra il genere femminile, come detto in precedenza, e in pochi casi risulta una scelta obbligata (solo per 6,5%), in Italia la situazione è ben diversa, visto che nella maggior parte dei casi (57%) si tratta di part-time involontario, perché riguarda donne che in realtà vorrebbero essere a tempo pieno.
«Nel nostro Paese – sottolinea Paola Profeta,docente di scienza delle finanze all’università Bocconi e studiosa di gender equality – il part-time è spesso una trappola che implica bassa remunerazione e poca carriera. Per questo ormai si parla di superamento di questa formula con l’adozione di forme di flessibilità del lavoro, come lo smart working».
Gli unici segnali positivi per l’Italia riguardano il terreno della «partecipazione». Abbiamo infatti buoni risultati sullo scacchiere europeo per numero di donne in Parlamento (35,4% di quello attuale) e ai vertici aziendali e nei consigli di amministrazione delle società quotate (34%, per effetto della legge Golfo-Mosca sulle quote rosa), anche se dal punto di vista politico sono tre i Paesi a superare il 40% della rappresentanza femminile in Parlamento: Svezia (46%), Finlandia (41,5%) e Belgio (40,5%), mentre il maggior numero di dirigenti si riscontra in Francia (43 per cento).
Continuiamo, invece, a stentare sul numero di laureate (19% rispetto al 34% della Francia e al 42% della Svezia) e sul tasso di fertilità (1,34 figli per donna rispetto all’1,92 della Francia e all’1,85 della Svezia).