Il prodotto italiano è sempre stato apprezzato per la sua qualità. L’attenzione al design, la passione per i dettagli, il valore dei materiali rappresentano da sempre aspetti distintivi del Made in Italy in tutte le sue declinazioni. Nel corso dell’ultimo decennio, l’idea di qualità si è fatta sempre più articolata. Non ci basta un prodotto bello e ben fatto: chi compra un prodotto italiano chiede – in alcuni casi, reclama – che dietro a questo prodotto vi sia una storia fatta di lavoro e di cultura in grado di sostenere e giustificare il valore di ciò che si compra. Per una domanda sempre più consistente dal punto di vista dei numeri, il prodotto e la sua storia sono un tutt’uno. Non siamo più semplicemente alla ricerca di manufatti capaci di superare questo o quel test di tenuta fisica e chimica; siamo alla ricerca di relazioni sociali e culturali di cui questi manufatti diventano il medium. Cerchiamo relazioni con territori, progetti, sensibilità che gli abiti, i mobili, i vini e persino le macchine del Made in Italy sono in grado di sintetizzare e di testimoniare in maniera efficacissima e originale.
Fino ad oggi abbiamo pensato che fosse la marca – il brand, nell’espressione anglosassone – la sintesi più efficace di tutti questi valori culturali. La marca è stata l’oggetto su cui si sono concentrati manager e comunicatori decisi a consolidare agli occhi della domanda un’identità di impresa capace di sintetizzare valori diversi ma pur sempre congruenti. La marca ha svolto storicamente il ruolo di un sipario: ha separato il mondo del consumo dal mondo della produzione. Ha tenuto distinti aspetti che il management (ma pure i consumatori) hanno percepito il più delle volte come inconciliabili: da un lato il mondo della produzione, con le sue leggi e la sua osservanza ai vincoli della scienza e della tecnica, dall’altro una domanda in cerca di rassicurazioni e di armonia, sensibile a mulini bianchi e famiglie sorridenti. Meglio tenere i due mondi separati e distinti.
Oggi una nuova domanda, attenta ai temi della cultura e alla ricerca di nuove connessioni sociali, chiede che il sipario venga aperto. Il consumatore chiede qualcosa in più della marca. Chiede di sapere cosa c’è alle spalle di ciò che compriamo, di ciò che regaliamo, di ciò che usiamo tutti i giorni. Non ci limitiamo a verificare le etichette che testimoniano l’osservanza di questa o quella impresa alle regole della certificazione della responsabilità sociale di impresa o della sostenibilità ambientale. C’è oggi una domanda di verità che passa attraverso il contatto diretto con chi lavora e con chi produce. C’è la richiesta di partecipare attivamente a quel fare che è alla radice di qualità e bellezza.
Questa riscoperta del valore della manifattura di qualità non può che passare attraverso la riscoperta dei luoghi del fare. Vogliamo visitare i luoghi del fare per riappropriarci dei gesti, dei materiali, delle tecniche che hanno fatto la nostra storia e la nostra ricchezza. In un mondo globale sono questi gesti e queste tecniche, uniti a passione e a dosi consistenti di imprenditorialità, a rappresentare un tratto distintivo del nostro modo di essere nella divisione internazionale del lavoro. Ci rendiamo conto che è proprio questo patrimonio di luoghi e di saper fare a renderci interessanti agli occhi del mondo. Per un attimo avevamo perso questa consapevolezza. Oggi ritorniamo ad esserne orgogliosi.
Un’avvertenza prima delle visite. Le aziende che collaborano al progetto Open Factory non sono generici custodi di un mondo passato, da riproporre a buyer globali come gloria del tempo che fu. Sono campioni di una nuova idea di manifattura che salda in modo esplicito tradizione e cultura digitale, che combina saper fare di matrice artigianale con innovazione nei materiali e nel design, che affianca alla qualità tecnica dei prodotti un nuovo racconto di sé. La tradizione e la cultura, per queste imprese, non sono oggetti da riporre in una teca di museo: costituiscono parte integrante del DNA di organizzazioni complesse, che da tempo hanno dato prova di saper stare sulla frontiera della globalizzazione. La visita a molti di questi spazi è un passo verso quello che l’Italia del futuro potrebbe e dovrebbe essere.