Lo zero nella casella del Pil del terzo trimestre non è stato un fulmine a ciel sereno, le previsioni degli addetti ai lavori si spingevano al massimo a ipotizzare un +0,1%. Che il momento sia grave è quindi opinione largamente diffusa anche perché, come spiega l’Istat, è stata l’industria a zavorrare la crescita. Del resto basta un rapido giro d’orizzonte per veder coincidere statistiche e evidenze empiriche. Il mercato dell’automotive, vero grande protagonista della ripresa dal 2015 ad oggi, si è inceppato. Nel mese di settembre le immatricolazioni di auto nuove paragonate all’anno prima sono crollate del 25,4%, quelle degli autocarri del 21,7%. Le vetture Fiat immatricolate sono passate da 33 mila unità a sole 18.700. Se alziamo la testa dal caso italiano ci accorgiamo però che per le quattroruote le cose vanno male in tutta Europa, con la sola eccezione di Croazia e Bulgaria. Settembre è stato nero per il mercato tedesco (addirittura -30,5%), per quello francese (-12,8%) e l’iberico (-17%).
L’altro potente driver della ripresa italiana era stato rappresentato dagli investimenti in macchinari ma proprio nei giorni scorsi i dati Ucimu sugli ordini interni di beni strumentali e robot hanno certificato un -15,3%. C’è da tenere presente che statisticamente il terzo trimestre ‘18 si confronta con un analogo periodo-record del ‘17 ma non c’è dubbio che l’adrenalina 4.0 legata al piano Calenda sia scesa di molto. Chi ha rinnovato per tempo i macchinari ha indovinato il timing giusto, chi non l’ha fatto non trova attorno a sé quel clima di fiducia/accompagnamento necessari per superare dubbi e pigrizie. Se passiamo in rapida successione gli altri possibili motori della crescita non troviamo grandi appigli. Il mondo del mattone con questi chiari di luna non si è potuto certo svegliare e anche i consumi delle famiglie sono piatti. Resta l’export che paga direttamente le turbolenze del commercio mondiale legate al revival del protezionismo. Infine non ci sono dati certi ma si ha l’impressione che anche le scorte industriali si siano ridotte: certe che il credito non potrà che restringersi le imprese fanno maggiore attenzione al capitale circolante e tirano indietro la mano.
Queste considerazioni si proiettano ben oltre le previsioni sul ‘18 — che dovrebbe chiudere con un incremento del Pil dell’1,1% — ma compromettono seriamente il 2019. Il monitoraggio dei centri di ricerca indica un risultato finale pari a 0,8, se non peggio. E qui arriviamo all’incrocio con le scelte del governo Conte. Come sappiamo la previsione governativa per il ‘19 è molto lusinghiera e parla di +1,5%, sappiamo anche come questo numero sia un mero alibi per giustificare con la Ue una manovra più larga dal lato della spesa. Ma la domanda che ci si deve porre è: le misure decise dal governo in che maniera possono muovere il Pil? Partiamo dalla revisione della legge Fornero: non dà maggiore liquidità ai pensionandi, anzi. Un beneficio per la crescita potrebbe generarlo grazie a un effetto di sostituzione giovani-anziani che fosse largo perché a quel punto si amplierebbe la platea dei potenziali consumatori. Ma su questo esito pesano due interrogativi: l’implementazione dell’intera operazione non è immediata perché avverrà a 2019 in corso e non sappiamo in che proporzioni le imprese sostituiranno i pensionati. Passiamo al reddito di cittadinanza e anche in questo caso non conosciamo la tempistica dell’attuazione. Il provvedimento è rivolto alle famiglie a basso reddito e di conseguenza potrebbe avere effetti sui consumi tipici di un paniere di base, alimentari e abbigliamento. In che misura alla fine ciò influisca positivamente sul Pil ovviamente non si può prevedere. Infine la manovra contiene 3,5 miliardi di investimenti pubblici e in questo caso però congiurano nell’alimentare lo scetticismo degli analisti due motivazioni, la tradizionale difficoltà a scaricare a terra velocemente la spesa per investimenti per le lungaggini amministrative e la diatriba sulle infrastrutture che divide le due anime del governo.